Di troppa bellezza si può morire...

Se avrete l'occasione di vedere una fotografia di fine Ottocento che immortala qualche piazza o via non potrete fare a meno di notare un particolare: nonostante l'ambientazione sia diurna la città appare inabitata. Non un essere umano o animale risulta presente dando l'effetto di un apparente deserto urbano.

Questo capitava per i lunghissimi tempi d'esposizione che venivano richiesti (almeno otto minuti all'epoca) per catturare l'immagine (e, per inciso, era il motivo per cui i ritratti fotografici all'epoca non avevano così gran successo e per cui i “soggetti” preferiti dai fotografi erano i grandi paesaggi “selvaggi” all'aperto).

Se vi capita di passare per Urbino non potete lasciarvi scappare la visita alla Galleria Nazionale delle Marche (Palazzo Ducale). Tra i vari capolavori presenti c'è quello che viene considerato come uno dei massimi simboli del Rinascimento Italiano: “La Veduta di Città Ideale” (di autore ignoto ma negli ultimi tempi si predilige il Laurana e databile attorno al 1480). Di chiara influenza “albertiana” (“Copia et Varietas”) avrà la particolarità (se avrete il tempo necessario di rimanere a contemplare: per citare Daverio, il miglior modo per guardare un dipinto è guardarlo a lungo) di stupirvi per la rinuncia a ritrarre oggetti animati di vita propria.

In entrambi i casi “segnali” di vita sono presenti: per esempio finestre aperte che lasciano intravvedere appartamenti dove qualche essere vivente è “passato” (piante, tende scostate, panni appesi eccetera) non solo per costruire la città ma anche “viverla” ma di esso rimangono appunto solo echi che appaiono, nel momento della contemplazione, distanti.

In una delle più significative opere a fumetti di sempre (“Watchmen”) uno dei personaggi, ad un certo punto, parlando della “Vita” (intesa come evento biologico) dice:

Secondo me è un fenomeno estremamente sopravvalutato. Marte se la cava perfettamente senza nemmeno un microorganismo. Sotto di noi si trova il Polo Sud... Niente vita. Solo gigantesche terrazze alte trenta metri, modellate dal vento e dalla sabbia secondo una mappa topografica sempre mutevole, scorrono attorno al polo a ondate, a intervalli di diecimila anni ciascuna. Dimmi. Un oleodotto le migliorerebbe?

Ovviamente alla “fine” (anche se nulla ha mai fine) cambierà idea.

Uso l'avverbio “ovviamente” perché anni fa (la prima volta che visitai Berlino) ebbi un/una preludio/sorta di Sindrome di Stendhal: in un luogo altamente improbabile cioè nel bel mezzo del Lustgarten (Mitte) “ammirando” il Dom davanti a me e l'Altes Museum alla mia sinistra (per dire non un luogo che riporta evenienze architettoniche che normalmente mi fanno “impazzire”).
In mezzo ad una moltitudine di persone intente a varie cose (più o meno culturalmente rilevanti) ebbi una fortissima sensazione di disagio: una difficoltà quasi a respirare e delle vertigini causate dalla sensazione di manchevole solennità (forse colsi quell'incompiutezza che regna sovrana a Berlino e che ne è la caratteristica più affascinante) del luogo. Per un attimo le persone attorno a me sparirono e mi ritrovai solo in un luogo che in quel momento mi sembrava “ideale” così tanto da poterci rimanere per sempre e abbandonare la mia essenza terrena e biologica.

In un certo senso l'esperienza del “Deserto” in uno dei luoghi più affollati al mondo.

Qualcosa ti manca quando non ce l'hai più. Scopri l'importanza dell'aria quando stai soffocando. Potrei continuare a lungo con i luoghi comuni ma, c'è un ma…
Non so se è possibile sentire la mancanza della vita quando non c'è più (perché implicherebbe discorsi metafisici che trovo inutili) solo che ora mi è chiaro che la vita da il meglio di se in quello che lascia indietro e per capirlo bisogna, in un certo senso, rinunciarci e attraversarla come se fosse un luogo desolato. Con il rischio di morirci.


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