C’è una cosa che m’ha sempre colpito del professor Vecchioni: la qualità dei suoi arrangiamenti.

Ora, fermi tutti… Io a parlar di tecnica sono un pivello, non certo là vorrei andare a parare; né tanto meno ho intenzione di scomodare scomodi paragoni con ben’altri virtuosi di un qualsivoglia strumento. Ciò che intendo (e che noto in ogni opera che ascolto del cantautore meneghino) è una cura per la parte strumentale che non trovo in nessun altro cantautore nostrano, eccezion fatta (ma è implicito nel genere stesso della sua musica) per il bravissimo Branduardi.

Per citare due esempi, il buon Bennato dei ’70 con armonica e kazoo era inimitabile, ma “essenziale” nei suoi arrangiamenti fai-da-tè; oppure il mai troppo rimpianto De Andrè: con il dovuto rispetto che si deve ai geni, mi si perdoni, ma la “botta de vita” della PFM ci voleva proprio… Vecchioni, forse proprio per il fatto di non eccellere con un proprio strumento sotto le sue dita, ha sempre lasciato fare: ed ecco allora arrangiamenti che spaziano dal rock (“La strega” dall’eccellente “Montecristo”) alla musica celtica (“Sette meno uno” da “Calabuig, Stranamore ed altri incidenti”) ad arditi - passatemi l’infelice obbrobrio – esperimenti pseudo-psichedelici (la bella “Canzone per Sergio” , da “Samarcanda”), passando per violini da brivido (Branduardi in “Samarcanda”) oppur’anche per tastiere molto anni ’70 (“Il castello”). Gran varietà d’arrangiamenti, insomma, degna cornice per dei testi sempre ricercati e splendidi nella loro poesia. Parlato anche troppo… Veniamo a noi.

Il pavone mi fissa da dietro gli occhiali scuri mentre riprendo in mano l’ellepì: inquietante, invero, nel suo dominare la strada. Uscito nell’anno ottantesimo secondo del secolo scorso (che fa molto professore di latino), “Hollywood Hollywood” è per certi versi esplicativo di quanto detto a vanvera fin' ora, estendendo il discorso anche alla veste grafica (curata dai soliti Pazienza e Romano), al solito ricca di riferimenti sessuali (vedansi ballerina e presunto maniaco… ); in scaletta otto brani a creare una stessa struttura da ambo i lati.
La prima traccia, che parte tra i meravigliosi fruscii della puntina sui solchi, è la title-track, nostalgica ballata densa di situazioni da film: strofe dalla bella linea melodica e ritornello corale tirato dalla chitarra elettrica… Hollywood, certo, ed il “solito” Vecchioni, l’amore, le donne e le taverne; mai dimenticare però che, inesorabile, verrà anche il viale del tramonto. “Ricetta di donna” (che vanta Zarrillo e la Vanoni tra i collaboratori) è un breve assaggio poetico sul vero amore e sfuma in una coinvolgente ripresa del tema di Nino Rota da “Fellini 8 e ½ ”.

“Dentro gli occhi” è la tipica, spiazzante canzone Vecchioniana… quasi recitato il malinconconico ritornello, folle e speranzoso il ritornello (“E non verranno i piemontesi ad assalire Gaeta, con le loro Land Rover, con le loro Toyota. E se verranno gli indiani con i lunghi coltelli noi daremo le botte, le botte anche a quelli!”). “Sestri Levante” è, a mio avviso, la perla dell’album: la canzone, che narra di un amore doloroso del passato, è una delicata ma decisa ballata, ottimamente arrangiata, ora soave, ora più tesa e cupa.
Altro lato, altra musica, altra città: “Parigi (o cara)” ha prima di tutto un forte valore affettivo, essendo in un certo senso la canzone dei miei genitori. Sorretta da una decisa sezione ritmica e caratterizzata da un azzeccato motivo che perfin’io so fare sul piffero delle medie, ha per protagonista ancora la donna: donna miraggio (“E cammina cammina solo per i tuoi occhi, li vedevo vicini ma era un gioco di specchi”), quasi ossessione (“Forse fu in sogno, forse era vero quello che sognavo, ed io non c’ero”); Parigi, la città degli innamorati, ne è metafora: è lontana, ma l’innamorato ci sa arrivare, e tra un momento la potrà toccare. E lei? Chiama il suo uomo, Robert Robert Robert, e poi la sua supplica si evolve in un delirante affresco urbano di vita (“Duchamp les amants le boulevards”) , ora gloriosa ora degradata (“La prima volta che mi uccisi, là, sopra le lamiere della Toue Eiffel”)… E poi ancora a chiamare il suo uomo… Robert Robert Robert. Gran bella canzone, poco da dire.

A seguito di un piccolo divertissement, ripresa di due strofe di “Hollywood Hollywood”, chiudono due canzoni emblematiche di uno stile: “Casa dolce casa” è l’ennesima, delicata, storia d’amore contrastata, con il filo conduttore di un luogo comunque caldo e sicuro in cui gioire oppure trovare conforto (“Casa vecchia, casa mia: se la notte qualcuno fa l’amore, fa pure finta di dormire insieme a me. ” ). “Morgana (luce di giorni passati)” è infine un’energica canzone (d’amore!!) dal vago (vago…) sentore rock, a cavallo tra ricordi e sensazioni (“E mi risveglio mentre sono a cavallo e sfioro gli alberi aggrappato al suo collo; e le racconto sempre un’ altra mia vita, e lei fa finta che non l’ abbia inventata”). Nota d’obbligo per il ritornello, autentico scioglilingua, eppur così dolce.

Beh, l’album è bello, indubbiamente: magari non il migliore del nostro (titolo forse dovuto a “Calabuig… ”), ma sicuramente importante mattone della storia del buon vecchio cantautorato nostrano.

E proprio il professore milanese occupa un ruolo di primo piano, spesso non riconosciuto (questo stesso sito ospita ben poche sue recensioni): sue alcune tra le più belle pagine di musica degli ultimi italici decenni, sue sovente le vette poetiche di cotanta opera, scritte magari sul tavolo dell’osteria, il calice di vino e le carte del solitario accantonate per un istante.

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