'Tedeschi, brava gente"
A dir il vero le mie idee sui tedeschi son sempre state alquanto negative. I primi contatti con l'etnia del bratwurst furono in Val Gardena, dove andavo in vacanza con la famiglia. Da bravo bambino non capivo perché, pur essendo in Italia, le insegne erano in tedesco e in certi ristoranti per capirsi col cameriere bisognava inscenare una pièce sulle capacità comunicative dell'Australopithecus Afarensis.
Ai tempi ero un bambino pseudo patriottico e la cosa mi stava anche sulle balle, mi dicevo "Che andassero a casa loro a parlà tedesco sti quattro salami nazisti!".
Eh si perché crescere alla sezione del Pci con mio zio non favorì un approccio, diciamo, 'aperto' nei loro confronti. Aggiungiamo le sonore pappine rifilate nell'82, mio padre che gli dava dei "magna – kartoffen" e per finire mio zio materno sposato con una krukka che più krukka non si poteva, e il quadro dovrebbe essere chiaro.

Col tempo, entrandone in contatto diretto, in Italia e all'estero, mi sono accorto di come i tedeschi siano spesse volte simpatici, precisi ma non troppo rompicoglioni, e un sacco fricchettoni. Certo il mio, essendo un discorso generale, non ha alcun crisma di veridicità culturale, ci mancherebbe, ma mi sono accorto quanto gli italiani siano spesso dei territorialisti.
I tedeschi conoscono l'Italia meglio di chi ci vive, girano in camper anche a 60 anni suonati, mandano i figli scalzi ovunque, li lasciano liberi di sguazzare nel fango e se ne fregano altamente. Proprio come dovrebbe essere e come era anche da noi fino agli anni'70.

Anche in campo musicale i krukki ci hanno ben che doppiato sia in passato che ora, basti pensare a quella masnada di psiconauti del krautrock, fino a realtà di valore internazionale, dai Rammstein (qui da invidiare c'è ben poco, ma lasciamo perdere), agli Atari Teenage Riot, etichette come la Morr Music, solo per fare alcuni esempi. I Colour Haze nel loro piccolo sono diventati una band di culto nella scena psichedelica, a forza di concerti gratis in giro per l'Europa. Un po' dei Gong dei nostri giorni, non tanto per similarità musicali quanto per una stessa attitudine anarco-freak. Rispetto alle precedenti prove, "Tempel" non contiene le consuete jam da 15min., prediligendo un mood uniforme e suggestivo, tramite un approccio meno fisico e più cerebrale alle composizioni.

Si potrebbe affermare che siano passati da un Garcia (John dei Kyuss) a un altro (Jerry dei Grateful Dead). Sono difatti gli intrecci chitarristici e i soliloqui della stessa l'elemento catalizzante di queste 8 tracce, che ricordano in più di un'occasione il "pigolio cosmico" dei Grateful Dead.
Canzoni speculari l'una all'altra, che seguono un andamento consimile, sinuoso e calmo, burrascoso e inquieto, giocando molto sull'alternanza di questi due timbri. Di certo retrogradi per scelta, ma onestamente, in barba ai trend musicali del momento e fieri di portare i calzetti con le Birkenstock. Ce ne fossero dalle nostre parti.

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