"Outcast" ('97) è quella sorta di calma instabile in cui giace la mente del maniaco che cerchi inutilmente di imporre un freno alle proprie pulsioni. È camminare tra le macerie che la furia del precedente "Cause For Conflict" ('95) si era lasciato alle spalle, azzerare la propria natura e rivoltarla come un guanto. È l'ennesima scossa di assestamento del genio creativo dell'indiscusso leader Petrozza che, ancora una volta, riesce a far indossare al demone una nuova maschera, imprevedibile e inaspettata: una vera e propria rivoluzione a livello di sound e songwriting che, come spesso avviene in questi casi, ha finito per lasciare sul campo delle vittime.

La prima, e più prevedibile, è Joe Cangelosi, colpevole di aver "usurpato" il trono del monumento "Ventor" Reil, che, con questo disco, decide di tornare al macello da cui si era allontanato. La seconda, più sofferta, è Frank "Blackfire", l'ex Sodom che, nel corso degli anni, si era reso protagonista di un'evoluzione tecnica davvero pregevole, riuscendo a lasciarsi alle spalle gli inizi zoppicanti al fianco del monolite Angelripper. Accade così che il buon Gosdzik, molto probabilmente spinto anche dalla svolta musicale che si stava profilando sotto la guida del visionario Mille, lascia il posto a Tommy Vetterli (proveniente dal cadavere ancora caldo dei Coroner), per chi scrive tra i migliori chitarristi metal di sempre. Nessuno può sapere quanta importanza a livello compositivo abbia avuto questo innesto (anche se i più sostengono che Vetterli si sia limitato al "lavoro di fino", essendo giunto quando ormai Petrozza aveva già completato buona parte del songwriting), c'è solo la certezza di quanto "Outcast" possa godere di molti degli elementi che avevano reso ostico, ma indimenticabile, il Coroner sound, soprattutto dell'ultimo periodo. Si pensi ai giochi di volume di "Ruin Of Life", al palm muting ipnotico di "Whatever It May Take", alle melodie circolari di "A Better Tomorrow", o alle atmosfere oniriche dell'intervallo assolistico di "Black Sunrise"

Ma, proprio come era accaduto nei Coroner di "Grin", anche in "Outcast" lo stravolgimento dei canoni del genere finisce per essere il movente per la terza, e più eclatante, vittima degli sbandamenti creativi del gruppo di Essen: la velocità.

Nascono così tredici specchi rotti, ingoiati per riflettere quello che ci cova dentro, fratture esposte di immagini imprigionate nel vetro, disturbanti ed inquiete: tredici mid tempos (o poco più..) in cui la musica è ridotta all'osso. Sadicamente, per darci tempo e modo di riflettere su quanto stia accadendo… rimanendovi invischiati. Chitarre, basso e batteria sono essenziali, diretti, talora minimali. I brani finiscono per essere "quadrati", lineari nelle strutture (sempre che non si voglia considerare un'eccezione la bella accelerazione nel finale di "Forever") e, in alcune occasioni, piuttosto prevedibili nel loro evolversi. Eppure le composizioni nulla perdono sotto l'aspetto della ricchezza: "Outcast" è una parete compatta, ruvida e abrasiva, ma puntellata di gemme, che proprio nelle sfaccettature, nei particolari, nei tocchi di classe, impercettibili ad un primo ascolto, costruisce la propria grandezza.

Doveroso, pertanto, è prestare la giusta attenzione agli sbandamenti industrial di "Whatever It May Take" e "Enemy Unseen" (reminiscenze dell'ingiustamente bistrattato "Renewal"), alle voci sovrapposte di "Alive Again", all'inconsolabile disperazione di "Black Sunrise", in cui Mille stupisce l'ascoltatore con un cantato pulito, misurato e sofferto, e, ancora, all'incedere lento e inesorabile della title track (in pratica impossibile da concepire come Kreator-song solo fino ad un paio di dischi prima), o al chorus dal sapore vagamente epico di "Stronger Than Before"… Tanti elementi, indici di un sound ammorbato da influenze eterogenee e sperimentazione, che contribuiscono a creare crudeli affreschi di inadeguatezza ("Leave This World Behind"), paranoia ("Phobia", anthem di devastante efficacia in sede live), isolamento ("Outcast") e sete di rivalsa ("Stronger Than Before"). Una carrellata di stati d'animo che emergono ancor meglio che in passato, perché non più soffocati dal turbinio delle ritmiche e dal vorticare dei doppi pedali.

Anche a distanza di circa dieci anni dalla sua uscita, "Outcast" è praticamente impossibile da giudicare obbiettivamente: lontano dalle sonorità più tradizionali e intransigenti per cui Petrozza e soci sono diventati famosi, ma ancora profondamente e intrinsecamente "estremo", si presta in pratica ad ogni genere di critica, sia dai thrasher più oltranzisti che dagli amanti dello sperimentalismo tout court. A mio avviso (e, soprattutto, ascoltato con orecchie più aperte e meno intransigenti), rimane un ottimo disco, ma non un capolavoro. Le pagine migliori, quelle più longeve e affascinanti, finiscono per essere quelle in cui più la band dimostra il proprio coraggio e la propria voglia di osare, svelando il proprio lato meno brutale e più prettamente darkeggiante ("Black Sunrise" e "Outcast", su tutte), mentre lascia un po' interdetti la banalità di alcune scelte, più che altro in fase di arrangiamento, soprattutto nell'ambito dei brani più regolari e immediati ("Against The Rest" e "Leave This World Behind").

Al di là dei giudizi personali, ciò che davvero conta sottolineare e che se "Outcast" fa paura non è per la sua rabbia, ma per la sua disperazione. La sua aggressività non è quella debordante e minimalista degli esordi, né, tanto meno, quella furiosa e violenta di "Renewal" e "Cause For Conflict". È qualcosa di intimo, perché è dall'intimo dell'animo umano che traggono origine gli incubi che vi vengono inscenati.

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