Iniziate a dimenticare i carillon giocosi, le melodie energiche e solari, quegli intermezzi acustici così deliziosi che avreste preferito durassero per sempre. Iniziate a cancellare dalla vostra mente ogni qualunque melodia pressocchè orecchiabile che voi ricordavate! Cancellate quella copertina giallo canarino, molto casareccia a dir la verità, che spiccava negli scaffali del vostro negozio di fiducia.

Iniziate ad abituarvi al bianco/nero a volti totalmente inespressivi e confusi, come se fossero usciti dallo studio di uno psicoanalista! Iniziate invece a ricordare la voce di Alec Ounsworth e moltiplicatela per 1000.

Sono ritornati i Clap Your Hands Say Yeah. La band dell'east coast americana che quasi due anni fa avevamo accolto in maniera abbastanza stramba. Erano una specie di Arctic monkeys del nuovo mondo: arrivati al successo grazie a blog su internet e passaparola incessanti registrarono il loro omonimo esordio ottenendo così ottimi responsi dalla critica. Tuttavia ad alcuni sono passati indifferenti , alcuni hanno gridato al miracolo mentre Ad alcuni non va a genio la voce lamentosa di Ounsworth. Beh come biasimarli ? A dirla tutta è come un Thom Yorke con un forte mal di pancia.

Anche a me all'inizio non stavano a genio ma poi pian piano mi sono abituato alla voce ed ho apprezzato soprattutto le melodie e le musiche che questi cinque "eastiani" americani creavano.
Dalla premessa che ho fatto però, avrete capito (per chi già aveva l'onore di conoscerli), che i Clap Your Hands Say Yeah non sono più gli stessi. Quest'album non è assolutamente un seguito del precedente.

Si propone burrascoso, senza alcuna melodia da ricordare orecchiabile o che puoi cantare sotto la doccia. I Clap your hands say yeah hanno osato e a mio modo di vedere questa scelta è premiata per il coraggio di non fare un album fotocopia al precedente. Coraggio che ha permessi di creare suoni più introspettivi, profondi e perchè no, anche difficili per orecchie troppo fragili e troppo abituate alle mode del momento e alle classifiche !
La traccia di apertura ("some loud thunder") sembra uscita dritta dritta dalle session di White Light/White Heat dei Velvet Underground : i bassi sembrano vogliano esplodere dalle casse e Alec abbaia, anzi raglia, più che mai. Questa ti dà l'impressione di un bootleg registrato una schifezza in qualche confusionario concerto, e invece, no. Ruggine, lame di coltello che girano e rigirano nel cervello; "Emily Jean Stock", è una ballatona infarcita di tutto questo ! Le linee di basso e le note al pianoforte, l'esplosione dei cembali ! Acida.

Più rumoroso e lamentoso.

"Mama , Won't You Keep Them Castles in the Air and Burning" è più scostante dal rumore ma non so perchè mi ricorda direttamente quei Pink Floyd diretti da Syd , pace all'anima sua. E vorrei e sto cercando ancora di trovare "l'amore" nella canzone "Love song n°7" che procede lenta e quasi fa girare lo stomaco di 180° ! Sembra che le ombre fuoriescano dallo schermo all'incedere di quella prepotente e lieve fisarmonica dal suono quasi "zingaresco". Il sovrapporsi delle voci e il rullante della batteria terminano e vi ritroviamo la lunga "Satan Said Dance".
Arrivati a questo punto troviamo, forse, quella forma canzone a cui siamo, ahimè, abituati. La musica s'infarcisce di piccole linee di elettronica , quegli arpeggi chitarristici che sembrano toccarci le corde vocali , l'incessare epilettico dell'organo e la voce tremolante che continua a ripetere "saitin saitin saitin dens dens dens dens dens" , la batteria incessante nel suo ritmo così preciso e trascinante. Tutto questo fa "Satan Said Dance" una delle migliori canzoni del lotto!

Ricordate poi quando all'inizio vi ho descritto dei paesaggi sonori acustici che i nostri dipingevano nello scorso disco , quelli che volevamo non finissero mai? In questo disco tutto ciò è messo sottosopra e l'intermezzo musicale è cambiato: ora c'è un organetto con la fisarmonica "zingaresca" che abbiamo ascoltato già prima ! "Underwater ( you and me )" è la più orecchiabile, potrebbe uscire come ingannevole/bastardo singolo per attirare gli ignari!  Dò un premio a chi riesce a seguire il testo sul booklet e capire ciò che dice Mr. Ounsworth nella lunga marziale chiassosa traccia di chiusura: "Five Easy Pieces"!

Le canzoni di Some Loud Thunder sembrano ritagliate, scomposte, piegate, accartocciate e messe assieme di nuovo, incollate con scotch di bassa lega, schizzate di colla stick fusa e martoriate a furia di punti di cucitrice creando così un "art attack" diabolico interessante affascinante e sinistro. Quest'album ricorda molto i gruppi sperimentali che nell'america texana, Illinoisiana e newyorkese fioccavano una volta. La bassa qualità del suono (qualcuno conosce o ricorda i black lips ?!?!?). Quelle free-form dei Red Crayola. Quelle sterzate schizoidi perversoidi dei migliori Velvet underground capitanati dal duo Cale/Reed.

Chi compra quest'album osa parecchio e osa bene ma chi non ama cambiamenti radicali di questo tipo, non rimarrà entusiasta sicuramente. Ripeto, i CYHSY hanno osato, e l'hanno fatto alla grande creando questa specie di revival del flower power sperimentale degli anni 60 in chiave grigia e Some Loud Thunder è un album che va apprezzato per i suoi spigoli e per i suoi angoli, non per un ascolto distratto e un commento screditante troppo facile che sicuramente avremo sulla punta della lingua.
Dimenticate or dunque, le timide figure spiaccicate nel giallo canarino.

Ora c'è posto per il grigio scuro e il bianco flash di un "qualche tuono rumoroso"…

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