- Vuoi dirmi dove sei diretto, Travis?- (Travis guarda avanti a sé e indica al fratello l'infinito senza parlare)

- Che c'è laggiù? Non c'è niente laggiù!-

Come il fratello di Travis in "Paris Texas" di Wim Wenders, parecchi frequentatori di questo sito non vedrebbero che il deserto. Lui invece laggiù vede il SUO infinito e non capisce perché non dovrebbe andare ad esplorarlo, poiché quello è l'unico modo per ritrovare se stessi.

Anche i Thin White Rope, come Travis, si dirigono verso quella frontiera virtuale tra l'essere e la conoscenza. E' questo che li rende grandi, la capacità di impossessarsi dello spirito di mille fantasmi, di stili, di influenze, del vissuto e restituirlo come un tutt'uno integro, non stratificato in modo da poter essere analizzato come un libro già letto. Ed è stato un gruppo fuori da ogni moda, quello dei Thin White Rope, che dalla metà degli anni ottanta ha continuato ad esprimere la propria musica piuttosto che farsi esprimere dalla musica del momento.

Sappiamo che il loro nome è preso da "Il pasto nudo" di William Burroughs ma forse non sappiamo che per loro indica, oltre al percorso di uno schizzo di sperma, altre soluzioni, come una sorta di legame invisibile tra le persone che mette in comune quella sorta di malessere e tensione attraverso un tenue filo biancastro simile a quello che ci fu troncato alla nascita con la separazione dal corpo materno. E così la voce roca di Guy Kyser racconta storie di paranoia e di emozione, ruvide e dolci allo stesso tempo, impastate con le chitarre intrise di una miscela acida di un certo punk al rallentatore che ha le sue radici nel country e nella psichedelia dosata con una precisione certosina, con la stessa pazienza che ci vuole per attraversare una distesa scarna come il deserto dove la solitudine scandisce ogni passo. Deserto che può essere fatto da di sabbia oppure dalle migliaia di case di una metropoli, quello che importa è che lo scenario dal quale siamo avvolti e il doloroso, ma necessario, cammino del Travis in "Paris Texas" ci porti a ritrovare noi stessi.

E dopo anni di aridità spunta nel 1991 questo "The Ruby Sea", dove invece il sapore della terra è sempre più forte e dove ancora le canzoni più belle hanno le forme mammarie pentatoniche dei seni materni. Le chitarre di Kyser e Kunkel s'intrecciano per ritrovare quelle radici country adesso ancora più forti che nel passato, come se, dopo cinque dischi, il percorso nel deserto li avesse riportati circolarmente alle origini ma con una consapevolezza maggiore.

Le chitarre sono spietate più che mai, secche e asciutte come le frasi di un libro di Carver, "Hunter's Moon" è il peana di Kyser alla ricerca di se stesso e allora la sua voce fa la spola tra dolcezza vellutata e rabbia gridata fino al crescendo inarrestabile con le mani affondate nell'umidità di madre terra. Ed à incredibilmente naturale che questa violenza sfoci nel country sognante di "Christmas Skies" con il sussurro della voce e gli echi di slide a lenire le ferite contratte prima. E invece la tetra "The Fish Song" è potente con il secco drumming a marchiare a fuoco una ballata nera e ipnotica estenuante fino a stordire come una danza dervish. Ma il fondo dell'acqua è disseminato di stelle e la più bella è "Puppet Dogs", malinconica fino alla commozione per la voce di Kyser che racconta una delle sue storie di fantasmi del passato cullate dalla distorsione delle chitarre. E forse "Bartender's Rag"non riprende quell'anima dolcemente country di un cowboy scalcinato che troppe volte ha scacciato dal suo corpo gli spiriti malvagi? L'incedere quasi doom di "Midwest Flower" è ben noto ai frequentatori dei Thin White Rope con quel lavoro pulito delle chitarre, assistito da una ritmica secca e precisa, di Kyser e Kunkel e che è un marchio di fabbrica della sigla TWR.

La title track "The Ruby Sea" è posta proprio all'inizio del disco, una ballata acida che come sempre vive della straordinaria voce di Guy Kyser altalenante tra l'oscurità e la luce. La chitarra acustica di "The Clown Song" chiude un'altra esplorazione della falsa superficie della terra e con essa un'altra buona prestazione senza fronzoli di uno dei gruppi più calorosamente ipnotici che mi sia mai capitato di ascoltare dal vivo.

Il voto? Io mi rivolgo ad un pubblico adulto, che tutti i giorni ha il problema di portare a casa i soldi necessari per il mutuo e che è preoccupato dall'aumento del prezzo del pane. Per queste persone i voti sono un lontano ricordo di quando andavano a scuola protetti dallo sgobbare dei familiari e pensavano che tutto si valutasse con i quattro o i sette. E che perciò sulla base di un voto si potesse sintetizzare tutto, il bene e il male, il buono e il cattivo. Oggi sono sicuro che queste persone non hanno bisogno del mio voto al disco, hanno letto la recensione e hanno capito quello che c'era da capire.

E i ragazzi abituati ai voti per apprezzare un disco, come faranno? Ci sono tante belle recensioni scritte dai loro coetanei, leggessero quelle e su questa ci tornassero tra vent'anni, se ne avranno ancora voglia.

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