O Dio del Metallo Progressivo, dammi la forza di celebrare degnamente questo immortale, potente, straziante, roccioso, emozionante, soffertissimo CAPOLAVORO.

Ecco, se iniziassi la recensione con queste parole, voi capireste subito di trovarvi di fronte a un aficionado, a un amatore, a un fan che non ha certo pretese di essere oggettivo. Ma noi siamo scienza, non fantascienza. E quindi, accingiamoci a una serena, e pacata analisi del quintetto più famoso del Progressive Metal e di quella che molti ritengono la loro opera più rappresentativa: "Images And Words".

Mike Portnoy è stato definito il più grande batterista di tutti i tempi da una nutrita schiera di critici musicali, tra tutti ricordiamo John Portnoy, David Portnoy e Josephine Halloran in Portnoy. Leader carismatico del gruppo nonché bell'ometto, Portnoy è famoso per avere scritto una canzone in onore della rottura delle acque di sua moglie, avvenuta durante le session del suo diciassettesimo side project, che coinvolgeva John Petrucci i giorni pari, Neal Morse i giorni dispari, e la signora che faceva le pulizie in studio al martedì e al giovedì.

James LaBrie, da non confondersi con l'omonimo, gustosissimo formaggio francese, è il vocalist che maggiormente ha diviso critica e pubblico. La frangia più interlocutoria dei fan ammette una certa limitatezza nell'estensione vocale ed una presenza scenica non entusiasmante, mentre i fan più duri e puri si limitano a sbavare e proferire frasi prive di significato, come al solito. Ed è un vero peccato, perché in effetti LaBrie ha un certa cifra stilistica, che rende la sua voce un improbabile quanto riuscito mix di Freddy Mercury, Ozzy Osbourne e Nikka Costa. Indimenticabile il suo vibrato in falsetto tremulo.

John Myung è un bassista mongolo ingiustamente meno famoso di Saturnino, ma dal punto di vista strumentale gli mangia gli involtini primavera in testa! Ma non divaghiamo, piuttosto è il caso di ricordare quella volta che Myung ha placcato sul palco LaBrie mentre stava cantando, così, per i cazzi suoi. Fantastico! Diciamoci la verità: ce lo vedete Saturnino a placcare Jovanotti mentre canta? Certamente no.

Non c'è Jordan Rudess, il tastierista che certa critica intransigente e di tendenza ha definito "l'uomo con lo scopino del water al posto della barba". C'è invece Kevin Moore.

Per ultimo ho lasciato lui, John Petrucci, il più celebrato guitar hero degli ultimi vent'anni, qualunque cosa ciò voglia dire. Sulla maestria tecnica di Petrucci è inutile dilungarsi. Basti dire che è secondo solo a Steve Vai, Jeff Beck, Joe Sartriani, Steve Morse, Alex Skolnick, David Gilmour, Frank Gambale, Steve Hackett, Jimi Hendrix, Allan Holdsworth, Rory Gallagher, Vernon Reid... L'elenco completo lo trovate sulle pagine gialle.

Ma ora, per la felicità dei fans, passiamo ad una telegrafica track-by-track. Speriamo che l'hard disk di DeBaser sia abbastanza capiente.

I cinque ragazzi di Boston partono subito molto tecnici, melodici seppur ritmati con l'iniziale "Pull Me Under". Petrucci delizia con riff granitici ed un assolo in puro travertino. A un certo punto, in studio di registrazione va via la corrente e non si sente più un cazzo.

"Another Day" è una delle ballad più famose del gruppo, un bel lentone tipo festina delle medie. Eccezionale assolo di Petrucci che percorre tutte le scale possibili ed immaginabili sulla sua chitarra. Qui come in molti altri dischi la song lenta dà modo ai musicisti di dimostrarsi melodici, seppur sempre tecnici e ritmati.

"Take The Time". Alla faccia dei critici, è incredibile la duttilità vocale di LaBrie che imita alla perfezione una bambina dodicenne. A un certo punto si sente anche dire in italiano: "Ora che ho perso la vista, ci vedo di più". Scartata in post-produzione la versione romanesca: "Mo' che sò cecato, ce vedo deppiù. E STICAZZI!?". Rimarchevole l'assolo di Petrucci.

"Surrounded" è una dolcissima song, melodica con una buona dose di tecnica e ritmo. Riffone ed assolo di Petrucci su tastiere gioiose e frizzanti come il vino novello. LaBrie compie il miracolo con i suoi strillini da liceale in amore.

"Metropolis part.I". Il brano preferito da fans grandi e piccini. Se non lo fanno in concerto, hai perso i soldi del biglietto. Tema melodico e grintoso, intermezzo strumentale dove tutti i cinque musicisti fanno a chi ce l'ha più grosso (il talento, sciocchini). Petrucci svetta su tutti con il suo assolo. E verso la fine si incasina parecchio, con un animalesco botta e risposta di tastiere e chitarra, i tumpa-tatatà di Portnoy si sprecano, ma poi alla fine... TAAC... Ecco che riprende il tema molto melodico e grintoso. In questo frangente, di solito il vero fan si esalta e suda. Attenti alle correnti d'aria.

"Under A Glass Moon", qui la precisione metronomica di Portnoy è addirittura devastante, poi entra LaBrie evocativo come sempre (e come sembra, anche) per una nuova emozionante cavalcata in groppa alle emozioni. Assolo tecnicissimo di Petrucci. Coraggio, siamo quasi alla fine.

"Wait for Sleep" è un altro momento melodico (senza rinunciare ai tecnicismi e ad un pizzico di ritmo) dove il piano la fa da padrone. Grande lavoro di Petrucci alla chitarra.

"Learning to live" è la track decisamente più prog di tutto il platter, con un mood ed un groove che rincorrono infiniti loops e chords ma sempre e comunque melodica, estremamente tecnica e notevolmente ritmata. Imperdibili i riff di chitarra di Petrucci, coronati da un assolo fatto con le sue manine sante.

Fine del disco. E anche questa è fatta. Se questa recensione vi è parsa troppo sintetica, e volete saperne di più sui Dream Theater, provate a cercare su DeBaser, può darsi che troviate qualche altra recensione di questo gruppo.

Concludiamo con uno slogan che piace sempre ai giovani: Listen to your Dream, live your own Teather.

E STICAZZI.

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