L'antefatto pare il soggetto di una commedia per teenager a stelle e strisce: un'inquietante via di mezzo tra "Grease II" e la puntata dei Simpson in cui Homer si fa sparare in pancia le palle di cannone.
Immaginatevi come protagonista un tipo un po' sgarrupato: non esattamente un nerd... solo non proprio una "rock star". Uno di quelli, tanto per capirci, di cui i compagni di classe si ricordano giusto il cognome e il banco in cui sta seduto.
Poi, ad un tratto, la botta di culo. L'imprevisto favorevole.
L'addetto alle luci inciampa e illumina chi, fino a quel momento, era rimasto in ombra.
Il capitano della squadra di football scivola e si rompe una gamba.
Al fico della cumpa viene la diarrea.
...e il protagonista si ritrova fra i denti le mutandine della capa delle Cheerleaders.
Fuor di metafora, le cose sono andate più o meno così.
Ogni anno, in primavera, nella cittadina di Tilburg, in Olanda, presso un locale chiamato "013", si tiene il Roadburn: più che un semplice festival, un vero e proprio melting pot di band, in cui stronzate come i generi, le etichette e i pregiudizi musicali fanno quasi sempre una brutta fine. Basti pensare che l'edizione 2009 vedrà la presenza, tra gli altri, dei russmeyeriani Motorpsycho, dei krauterrimi Amon Dull II, dei redivivi Saint Vitus, dei nostrani Ufomammut e dei blusaccioni Radio Moscow. Roba, insomma, che a volerci trovare un filo conduttore si corre il rischio di sudare parecchio.
Nel corso dell'edizione 2008, gli Isis, attrazione principale della serata del venerdì, finiscono di suonare con parecchio anticipo. A rimpiazzarli, vengono chiamate tre facce da galera, che, in teoria, avrebbero dovuto esibirsi nella più piccola delle sale dello "013", la "Bat Caverna" (capienza stimata: 200 persone). Per nulla intimorito dal pubblico in sala (si dice duemila cristiani intirizziti dal THC), il gruppo sale sul palco principale del locale. Quello dei tre con la chitarra si avvicina al microfono e, con la bocca impastata e l'alito cattivo, farfuglia una roba del tipo:
"Grazie a tutti...
noi siamo gli Earthless...
siamo felicissimi di essere qui...è davvero bellissimo essere qui...
grazie, grazie mille a tutti...
tutte le band oggi sono state incredibili... grazie di nuovo per tutto...
...Gino, tàca la mùsica..."
Da lì in poi saranno NOVANTA minuti NOVANTA di jam "cosmic hard rock strumentale" e luci psichedeliche che balenano nel buio come raggi B vicino alle porte di Tannhauser: una lunga, apparentemente interminabile galoppata chitarristica in groppa a basso e batteria, rimbalzando tra hard blues, stoner e space rock, quasi a rievocare le eterne improvvisazioni live di settantiana memoria.
Più o meno come se Tony Hill, Bonzo Bonham e Geezer Butler si trovassero a suonare al matrimonio di Dave Brock degli Hawkwind, dopo aver chiuso Dik Mik in bagno: una serie infinita di colpi sotto la cintura di Orione, un vero e proprio torrente in piena di note, che chiede solo all'ascoltatore di non opporre resistenza e di farsi trascinare dalla corrente.
E se nelle produzioni in studio è il funambolismo chitarristico di Isaiah Mitchell a far inturgidire prepuzi e capezzoli, qua è soprattutto il batteraio Mario Rubalcaba a calare la mutanda e a far capire al mondo che, se fa fatica ad accavallare le gambe, è perché sotto c'ha due maroni così.
Il risultato, inevitabilmente, è di quelli che stordiscono e affascinano, attraggono e frastornano allo stesso tempo. Perché, intendiamoci, se da un lato la dimensione live è quella che meglio fa emergere l'approccio trippesco del terzetto di San Diego, è anche vero che un'ora e mezza di deriva psycho-strumentale rischia di attaccartisi alla corteccia cerebrale peggio del muschio.
Il finale ora lo sapete.
Pop corn gratis a chi rimane fino ai titoli di coda.
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