Certo che Bowie è sempre stato un grande figlio di puttana.
Quello che i tanti fans adoranti, spuntati come funghi in Inghilterra sulla scia dell'epico "Ziggy Stardust...", acclamarono grazie a questo disco, in realtà rappresenterà una pugnalata al cuore, un canto del cigno di un artista che stava attraversando forse il momento piú intenso, emotivamente e professionalmente, della sua carriera: il preludio a una scelta inaspettata e concretizzata all'Hammersmith Odeon di Londra, tra incredulità e lacrime.

Quando uscì "Aladdin Sane", il mito del Glam Rock aveva raggiunto il proprio apice mai piú eguagliato: si era nel 1973, e ovunque fioccavano i funamboli, gli imitatori, i profeti dell'eyeliner e delle giacche sgargianti, i patetici e stravaganti Elvis dei poveri, tutti i giovani damerini.
Marc Bolan collezionava hit su hit ma si rodeva del successo dell'uomo che cadde sulla terra: Bowie però pensava a tutt'altro, e non solo all'eroina.

Questo quindi non è l'album che consacra il glam, è l'album che lo uccide. Definitivamente.
Anche perché, almeno a sonorità, è probabilmente e paradossalmente l'unico album "glam" dell'androgino marziano, quello cioè che meglio riassume lo spirito della sua parabola di inizio anni '70: arrivare alle masse ma portare avanti un discorso profondamente personale – per non dire criptico – celando sotto i ritornelli pop e i graffi melodrammatici di malinconiche ballate la propria tormentata crisi d'identità, il proprio isterismo, la propria alienazione "aristocratica" e capricciosa.
"Aladdin Sane" (a lad insane) è Bowie che si guarda allo specchio con un bicchiere di Möet & Chandon in mano e ride di se stesso, della gente che lo circonda, del tempo che passa inesorabile e che non si può corrompere, non si può prostituire. È una esasperazione del proprio ego e di come questo osserva e giudica la vita. Canzoni scritte per andare in classifica ma che hanno la funzione di mettere il punto conclusivo a un "genere" che nacque per essere destinato a morire in pochissimo tempo, affogato dalla retorica, dalla vacuità, dalla sua innata irresponsabilità.
È il tour americano, consacrazione della gloria tanto ambita e finalmente ottenuta, a spingere il nostro verso una ridefinizione del suo essere artista, a prendere la posizione quasi di un filosofo, che riflette sul senso di una vita immersa nel divismo sfrenato tra droghe, groupies, esposizione mediatica, culto del proprio ego (la copertina del disco meriterebbe un paragrafo a parte), amicizie celebri e di una fama che inizia a mostrare impietosamente entrambi i lati della medaglia.

Il suono è grasso, pomposo, strafottente come in "Cracked Actor" ("I'm stiff on my legend", canta), bubblegum grezzo e ruvido. Bowie prende come riferimento l'epopea dei Rolling Stones, omaggiandoli con una cover ("Let's Spend The Night Together", che anticipa "Pin Ups") e con quella "Watch That Man" (cinico ritratto della "bella vita" newyorkese) che riassume il volto sarcastico e diretto del disco.
Il secondo volto è più esplicitamente esistenzialista, come nella stupenda title track (ispirata al romanzo "Corpi Vili" di Evelyn Vaugh), un pezzo assolutamente anomalo per gli standard bowiani di quegli anni, in cui sono le tastiere anarchiche ed eccentriche di Mike Garson a farla da padrone (e non aggiungo altro) o nell'amara e drammatica "Time", una delle canzoni più bizzarre e struggenti mai realizzate da Bowie (con un assolo "storico" di Mick Ronson), una sorta di tetro e fatalista vaudeville provocato dalla morte per overdose di Billy Murcia, il batterista dei New York Dolls.
La voce di Bowie è come sempre camaleontica, ora tesa, ora sguaiata, ora quasi singhiozzante: concettualmente, l'America entra prepotentemente nel suo immaginario e lui la proietta in un ipotetico futuro devastato dall'energia nucleare ("Drive In Saturday, musicalmente quasi una rivisitazione meno nevrotica di "Rock'n'Roll Suicide", e l'acida "Panic In Detroit"), presentando invece una virata più intimista in "The Prettiest Star", con una sezione d'archi che sembra una parodia delle soundtrack di un qualche sognante film "di plastica" hollywoodiano degli anni '50.
È poi il momento di "The Jean Genie", singolo che oggi definiremmo "apripista" dell'album ma ancora in un certo senso legato a "Ziggy Stardust": brano famosissimo, è un blues pomposo e coinvolgente che striscia sui versi di Bowie, che ancora una volta ricorre a giochi di parole, riferimenti, allusioni alle droghe e alla sua straniante esperienza negli USA. Non c'è bisogno di un Francis per definirlo come uno dei pezzi più rappresentativi della carriera del Duca Bianco: non il migliore, ma certamente uno dei più emblematici, nonostante pare sia stato scritto pensando a Iggy Pop.
La chiusura è affidata alla dolce e triste "Lady Grinning Soul", anch'essa profondamente in linea con il mood decadente e disincantato del disco.

In teoria non ci sarebbe traccia della svolta che porterà Bowie ad abbandonare le sue astronettes e i suoi ragni da Marte, trasformandosi in qualcos'altro di non ancora ben definito: forse solo lui sapeva che quella che poteva sembrare una momentanea meditazione sul periodo storico che lo aveva visto protagonista era in realtà un capitolo che si accingeva ad essere chiuso senza ripensamenti, all'insaputa di tutto e di tutti.
Eppure tutto ciò era già stato annunciato nella stessa "Aladdin Sane": "Chi amerà il Saggio Aladino? / Milioni di persone piangono come fontane / Nel caso che arrivi l'alba / Chi amerà il Saggio Aladino?".

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