True Norwegian Black Satanic Krieg Metal e compagnia bella? No. Non è True. Non è Norwegian bensì made in Deutschland, non è Satanic, e il termine Krieg l'ho buttato a casaccio. Però è Black. Anzi no, di più. Basta con lo sterile Black sempre uguale dal 1990 a questa parte, fruttuoso ed innovativo in quegli anni, ma padre di miliardi di figli clone che non hanno fatto che ammazzare un genere con la loro ripetività.

La band di Amburgo propone qualcosa di differente, percepiamo l'alienazione dell'ambient, l'atmosfera del doom sommato ad inserimenti annichilenti vagamente post-rock. Ma in ogni caso l'oscurità e la pesantezza del Black si percepiscono a piene mani, soprattutto in questa giornata grigia di vento e pioggia nella quale sto scrivendo. Questa volta però non è nella tundra norvegese, non è nella Schwarzwald che la nostra mente viene portata. Il buio viene trasferito nella modernità, nelle nostre grandi città, asfissiate dalla frenesia di giorno, abbandonate a se stesse nelle periferie che si svuotano in preda alla desolazione notturna, ci ritroviamo nei vicoli vuoti e tetri di una giornata in cui il sole dimentica di esistere, dove il vento non ti sferza i capelli ma ti va venire solo voglia di tornartene a casa, chiedendoti ripetutamente il motivo per il quale si è usciti. Fa freddo, tanto, non troppo, ma quel che basta a darti fastidio a farti urlare basta, a volere desiderare un pò di luce. Ma la desideriamo davvero ? 

Tra le note di questo album no, non la desideriamo. O per lo meno, non io. Mi trovo totalmente assorbito da queste note, da questi cambi di ritmo, questi arpeggi, che solo un briciolo di sole manderebbe a farsi fottere l'intera atmosfera. Nessun brano è banale, composti tutti per incatenarsi l'un l'altro in un susseguirsi di piccole gocce di emozione che ricadono sempre nello stesso punto, creando un circolo ipnotico, proprio come quello di una goccia che si perde ripetutamente nell'infinito del mare. Riff puliti, mescolati a chitarre a zanzara, silenzi, rumori quotidiani, assoli, non tecnicissimi forse ma assolutamente in grado di svuotare la mente dell'ascoltatore per insinuarsi subdolamente tra le sinapsi.

E le voci ? Scream, voce femminile, Scream, voce pulita, Scream e ancora Scream. La voce femminile nel primo brano "Cafè of Lost Dreams" e gli spezzoni in clean nelle altre canzoni sono come la quiete come la tempesta. Arriva, sempre. Ma non dura. L'urlo di Nils torna sempre potente e stranziante, senza essere eccessivamente lancinante, un urlo di dolore più che di disperazione. I brani spesso risultano essere forti, intermezzati da momenti più suffusi e tranquilli, la ritmica corre attraverso suoni pieni e potenti, calibrati in buona maniera da una produzione più che discreta. Non serve lentezza esasperante per trasmettere il più ampio concetto di solitudine, solitudine che qui non ci è solo trasmessa, ma assolutamente richiesta. E' un album da ascoltare da soli, in pace con il mondo, ma non necessariamente in pace con se stessi.  Possa la musica aiutarci a scavare dentro di noi, a mio parere è a questo il compito al quale, quella che io definisco l'arte per eccelenza, deve adempiere. Deve Aiutare conoscerci, e forse un pò a capirci. La musica può svagarci, ma non può, non deve essere solo quello.

Uno dei migliori lavori dell'anno appena trascorso. Non c'è un brano migliore di un altro, l'album è un flusso continuo ed inseparabile che va assimilato nella sua interezza. Perdetevi in questi 53 minuti e cercate di uscirne rinnovati, magari abbandonando la malinconia, lasciandola assorbita all'interno dell'ascolto appena effettuato, pronti a farvi investire da emozioni nuove, travolti da un onda di improvvisa erasmica follia.

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