E' sempre difficile descrivere un cantautore. Josh T. Pearson, come pochi altri, ha semplicemente il Dono.

La recensione potrebbe terminare qui, poiché quando si parla di un cantautore è la Luce che emana la sua arte a costituire l'unica discriminante che possa definirne la valenza.

Americano, texano fino al midollo, figlio di un predicatore, lui stesso predicatore per un certo periodo, Josh T. Pearson sembra uscire da un'altra epoca, scavalca le pareti che perimetrano il suo universo casalingo, le mura che delimitano il suo mondo interiore, per raccontare e diffondere la sua Buona Novella. Un lavoro durato anni, questo suo esordio targato 2011, un lavoro volto a calibrare l'essenza, prima ancora che la forma, dei brani che infine sono stati miracolosamente catturati nelle sessioni di registrazione di questo fenomenale “Last of the Country Gentlemen”, fra i migliori esempi che il genere possa offrire in questi anni.

Impresa titanica, tanto che l'autore stesso ne uscirà distrutto, per lo sforzo indicibile che un artista “da casa” come lui ha dovuto affrontare per riversare anni di interiorità combattuta nel famigerato “dischetto” da offrire in pasto al mercato discografico. Un'impresa che tuttavia riesce a coronare più che degnamente un percorso di ricerca che parte nel momento in cui il Nostro dichiara conclusa l'esperienza dei suoi Lift To Experience, archivia il suo passato elettrico e decide di rinchiudersi nella sua dimora in campagna, in compagnia della sola chitarra acustica. Il suo tormentato fingerpicking risente di anni di lavoro, in cui le corde sembrano aver vibrato incessantemente fino a quando l'armonia giusta è stata raggiunta, spaziando per le lande desertiche e polverose e desolate ed aride del Texas (impressiona il pensiero che da questo quadro sia scaturita una sorgente così fresca e rigenerante, tanto che viene il sospetto – e son certo che l'autore stesso sarebbe d'accordo – che vi sia lo zampino del Divino, e non potete capire quanto possa pesare un'affermazione del genere al sottoscritto).

A stupire, più di ogni altra cosa, è la struttura delle composizioni, che spesso, vagando sull'onda di un songwriting libero ed ispirato, superano i dieci minuti di durata, cosa insolita se si pensa al genere proposto. Cosa invece comprensibile se si pensa al metodo di scrittura del nostro uomo, che ha prima modellato le musiche in un regime di totale libertà espressiva, le ha fatte fluire, pascolare per miglia e miglia, per poi adattarvi sopra le liriche, di rara intensità. Composizioni imponenti e fragili al contempo, come maestosi castelli di sabbia disseminati nel niente del deserto, che incutono rispetto per la mole, oltre che per la bellezza.

Una musica che si evolve senza fretta, fraseggi che si succedono liberamente in una sorta di estasi creativa volta a catturare la vibrazione di una corda e il suo conciliarsi in modo perfetto ad una parola, ad una frase: un'arte volta a padroneggiare con miracolosa delicatezza, ma non senza difficoltà, un'incandescente materia emotiva. Ed in questo Pearson è davvero un gentiluomo: evidentemente, nella sua concezione pura, spontanea, istintuale della genesi artistica, l'autore non sembra avere interesse a strutturare le sue emozioni nei limiti temporalmente ristretti di una canzone. Come se prima ancora di un processo di creazione artistica si parlasse di infinite sessioni di un affannato percorso terapeutico e purificatore.

Anche se poi, c'è da dire, non è che Pearson se la cavi male nel “piccolo”, e non a caso troviamo a mio parere i momenti più intensi dell'opera proprio nei brani di apertura e di chiusura, tre minuti scarsi ciascuno.

"Thou Art Loosed” si apre ascetica, nel contrasto fra il brulicare di una chitarra che ricorda il Cohen più tormentato ed una voce celestiale non priva di una tensione epica che esploderà in un finale da vera pelle d'oca (“I'm Off to Save the World”) ripete la voce cantilenante in un clamoroso crescendo di intensità. “Driver Her Out”, invece, è una confortevole ninna nanna che chiude l'opera stemperando l'incredibile tensione accumulata per tutto l'album nel bagliore tenue e momentaneo di una luce (la Luce) che lascia all'ascoltatore una rassicurante sensazione di speranza.

In mezzo, fra “Thou Art Loosed” e “Drive Her Out”, troviamo cinque brani uno più bello dell'altro, probabilmente disorientanti nella loro estenuante lunghezza, fra una pausa ed un'incertezza, nel loro procedere senza che (almeno apparentemente) accada qualcosa. Ma mai come in questo caso è importante prestare attenzione all'ascolto e saper cogliere le sfumature, sapersi adagiare alle carezze di una musica che sa crescere, sa divenire drammatica, dolce e disperata, per poi quietarsi e ripartire nuovamente nel tentennare di un cammino doloroso, ma non privo del miraggio di una redenzione finale.

Il paragone più vicino è il solito Drake di “Pink Moon”, anche se il richiamo pesante alla tradizione folk americana è evidentissimo fin dalla barba spropositata che Pearson si porta sotto il mento. Ma è il solito Drake di “Pink Moon” il punto di riferimento primo se si vuole intendere il dolente e fragile cantautorato di Pearson. E veramente a poco servono le mai invasive, quanto melense, incursioni del violino di Warren Ellis, certamente non fondamentale ai fini dell'economia del suono, ma indispensabile per la tenuta psicologica di Pearson stesso, forse rincuorato dall'approvazione dell'artista/amico incontrato sul palco mentre era stato la spalla dei Dirty Three. Forse bisognoso di un po' di comprensione, probabilmente rinvigorito dallo straordinario feeling che solo un musicista dello spessore di Ellis sa ricreare nel contesto sterile di uno studio di registrazione.

"Last of the Country Gentlemen” è un miracolo, e forse non si ripeterà (difficile poter pensare di poter bissare una tale perfezione e rigenerarla nuovamente in studio, almeno nelle stesse modalità, soprattutto se si pensa ad un artista schivo e solitario come Pearson, a cui il successo e la popolarità probabilmente faranno più male che bene, in quanto elementi perturbanti di un equilibrio fragilissimo che ha più che altro del fortuito). Ma quando si parla di cantautori è sbagliato ricercare nuove rivelazioni, il nome da tramandare ai posteri; quando si parla di cantautori è sufficiente saper cogliere il Dono, la Luce che essi detengono, e farsi da essa irradiare, anche per un solo istante. Ancora per un solo istante.

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