È sempre cosa difficile riconoscere la grandezza di un contemporaneo, specie se italiano. Specie poi se si tratta di Massimiliano Parente, famoso soprattutto per le sue stroncature sul Giornale che spesso invogliano il lettore distratto a tacciarlo di invidia e di faziosità, anche solo perché lo si percepisce già a pelle come un rompiscatole, un qualcuno di così impunemente fuori da ogni rango e da qualsivoglia cordone di protezione da risultare terribilmente scomodo, e dunque disarmante, incorruttibile. Il punto infatti è che alla satira culturale dei suoi articoli Parente ha sempre affiancato opere di un’importanza innegabile, romanzi monumentali e dal sapore denso ed estremo, totalmente altri rispetto alla stragrande maggioranza delle produzioni cartacee che affollano i supermercati del nostro povero Paesino.

L’inumano, il suo ultimo e forse miglior romanzo, ne è la riprova definitiva. Qui si gioca tutto nello spasimo di una vita incinghiata a un lettino, nel buio, nell’incubo cosciente di un corpo che rielabora continuamente un passato individuale e di specie sullo sfondo del nulla cosmico, assoluto, che è la non-vita, o la vita priva di coscienza. La verità non giunge a scaglie, con salvifici giri di parole e toccanti vignette lenitive: al contrario, viene scagliata contro il lettore senza mai dargli alcun appiglio misterico o anche solo politico, senza il cavillo di un “ora” che faccia da scappatoia al “sempre” e al “mai”, senza nemmeno lo specchietto per le allodole di un linguaggio duplice, indefinito, fraintendibile: “la parola vita è ingannevole perché suona positiva, concepita nell’ignoranza biologica di cosa significa realmente vita. Così oggi appena dici vita sembra una cosa bella, la vita è bella, è la vita, finché c’è vita c’è speranza, e tutto ciò ha un senso se si ignora ciò che realmente è la vita, la terribile macchina cieca e spietata e insensata della natura, un’altra parola che suona insensatamente positiva…”. Non c’è vetta, non c’è scalata dalla cui sommità rivelare un punto archimedico-kafkiano, una leva da cui sollevare il mondo e se stessi anche solo per usarli a nostro discapito e svantaggio: qui la parola sgorga dal muco e dalle feci delle nostre fondamenta, dalle macerie e dalle mercanzie del corpo biologico, dai detriti cosmici e dalle imboccature dei desideri ringoiati dall’entropia. Vi è un buco, solo un buco, e una bocca che ci e vi parla dentro, da dentro. “Le nostre ossa, la prima formazione delle nostre ossa comincia da una bocca […] Ma in fondo il buco del culo precede tutto di centinaia di milioni di anni, bocche e culi al principio indistinguibili. Quanti dibattiti sui primi fossili multicellulari, nel tentativo di distinguere le bocche dagli orifizi anali.” Ma poi i due orifizi si separano, vivono la frattura di una distinzione, un taglio. È uno dei tanti traumi desumibili dal cieco meccanismo dell’evoluzione, sapientemente riepilogato nei capitoli di prigionia dell’autore-Parente, prigionia che è insieme esperimento sul corpo e sul passato di ogni corpo, ontogenesi e filogenesi interamente rivissute come un’immensa, irredenta seduta psicoanalitica della vita e della non-vita sulla terra. C’è una separazione, più di una anzi, e c’è il guadagno di uno spazio individuale, decisivo, conchiuso e irreparabilmente solitario. Eppure, la bocca parla. Fino allo stremo la coscienza esprime il tentativo fisiologico del dirsi corpo, del dirsi diramata in uno scheletro e in un fascio di nervi, in un ammasso di organi e impulsi, la coscienza è nell’uomo che la rivomita nel buco, è nell’uomo che striscia e trascina le sue poltiglie senza nemmeno disporre di braccia e gambe attraverso cui sollevarsi: tutto è netto, terricolo, il resto è stato dimenticato o letteralmente raso al suolo, giacché in fondo “la posizione eretta è un modo per illudersi di sfuggire alla terra, al trascinamento verso l’inorganico. Tutto tende verso il basso, la terra attende di inghiottirci, senza neppure saperlo, senza attendere nulla.”

La parola di Parente è fluida come poche, ora ipnotica, seduttrice, ora consequenziale e incatenata alla sua e alla nostra evidenza (“l’evidenza della cosa terribile”, per chi ha compreso Proust), come tutto ciò che è necessario in quanto vero. Il personaggio che ne riflette nome, fattezze e pensieri è bipolare solo se eletto allo stato di depresso, solo se letto nell’ottica di una vita possibile, ultimabile, altrimenti è la quintessenza del conseguente – non c’è in lui lo “scandalo del contraddirsi”, non c’è conflitto tra impegno intellettuale e interesse privato, non c’è nessun “santino” pasoliniano a cui ispirarsi: “nessuno ha mai capito la sua ossessione, tantomeno il medesimo Pasolini, così intriso di ideologia civile da dover montare tutta una provincialissima impalcatura di lotta civile sul proprio tormento erotico per giustificarlo civilmente, non avendo il coraggio, fondamentale in uno scrittore, di sviscerarsi da solo e andare dritto al centro dell’ossessione sessuale, senza le tiritere sociopolitiche tipiche dei letterati italiani.” Si ride, in quest’opera, e tanto: di noi, dell’Italia, della cultura ormai mummificata; ma è una risata estenuata, impossibile. Inutile dirlo, qui non c’è rispetto per la Nazione, rispetto per la Storia, rispetto per le Opere e rispetto per il Rispetto: Parente distrugge e vomita tutto, si vomita sopra e sotto e dentro ogni cosa perché sia lui il primo e l’ultimo a restare, il primo e l’ultimo a essere vomitato, il solo, in realtà, perché solo così potrà davvero porre se stesso oltre tutto il resto – e porre il lettore con sé e dunque in sé, alla fine di tutto, un lettore di rado così perversamente costretto a specchiarsi in ciò che abitualmente aborrisce, a specchiare se stesso nell’inumano, a spacchettare i propri neuroni nello sforzo, darwinianamente simpatetico, di essere quel qualcosa di estremo che giunge, nelle ultime trenta pagine, a essere l’orrore che è sempre stato, l’orrore che è L’inumano.

Parente non ospita eutanasia, non pone colpe né depone le armi razionali in favore di una rabbia “solamente” cieca: il suo “ti amo” ripetuto alle orecchie delle sconosciute cui telefona di notte come a quelle delle sue bellissime e terribili aguzzine è semmai il disarmo di ogni ostilità teleguidata, è l’ammissione di un male che non conosce vincitori, ma solo vinti. Nessuna libertà, nessun rifugio, solo il coraggio di un pensiero senza scopo né corolla e che pertanto osa dire se stesso e dicendo se stesso rivela l’osceno, continuamente spingendosi oltre, oltre la scena, oltre la natura e la società e l’arte, persino oltre la nostra vita/viltà di specie, dove nessuno si era mai spinto prima d’ora – non con tanta ferocia, almeno, non con tale disperata presunzione di assoluto, con una simile annichilita determinazione. È il pensiero che osa redarre la scarnificazione dell’oggetto a cui è intrinsecamente legato e da cui, un giorno non lontano, sarà negato. Il massimo opposto di ogni teofania, ma anche l’unico opposto possibile al cogito cartesiano, la secolare rimozione che vuole la coscienza – la mente – indipendente dalla carogna che ne racchiude le cellule percipienti, e che sola ha reso possibile questa assurda, definitiva constatazione di resa. Non c’è un’anima, un prima, un dopo in cui confidare. Raccontare la vita è dire la sua incapacità di valicarsi, o anche solo di autogiustificarsi, e lo scrittore è precisamente questo tentativo impossibile, contronatura, di esplicare l’inesplicabile e dire l’indicibile, il paradossale quinto arto che “recide gli altri quattro mantenendo sufficiente margine di manovra per recidere se stesso e non lasciarsi nulla dietro né tantomeno davanti”. A queste condizioni non si può nemmeno provare a organizzare una qualche difesa, una campana di vetro ad argine intellettuale della vita e a sponsor di un qualche valore, di una qualche ricetta glassata di rivalsa da sofisticazione. Non vi è nemmeno la pur difficile poesia superomistica, l’innalzamento moralistico e/o nichilista che traccia una strada, una via, alternativa alle altre, non vi è nemmeno il mito tecnocratico da anticipazione sociale che pone al centro di tutto la scienza, la manipolazione genetica o semplicemente ingegneristica della nuda vita, giacché qualsiasi superamento di specie non cesserà mai di essere strumento di una qualche riproduzione, di una qualche circonvoluzione mentale che autorizzi la ripetizione dell’orrore, mentre, a conti fatti, “l’annientamento volontario di ogni vita sulla terra sarebbe […] la più grande opera d’arte e di pensiero dell’umanità.”

Definitivo, ultimato, l’uomo-Parente è ormai lontano anche dalle perversioni che erano state lo spirito e il cuneo indagatore delle opere precedenti: qui i calpestamenti, la coprofagia, la pornografia e persino il feticismo risuonano come battaglie sfumate, ridotte a sfondo sulfureo, e infine sfondate: “sono capace di seguire una ragazza e i suoi piedi per chilometri senza che se ne accorga, finché non mi stanco e ne cerco un’altra da seguire che mi riporti indietro, per non ripercorrere la strada a ritroso senza alcuna ossessione, solo che ormai parto già stanco, sentendo tutta l’inutilità delle mie ossessioni.” È il termine del desiderio riperso persino per il feticista, che è per sua natura ossessionato e dunque eternato, infantile al massimo grado. Poi, il romanzo ha i suoi difetti, come capita anche ai grandi. È troppo breve e fin troppo scorrevole, specie rispetto ai due romanzi monumentali che l’hanno preceduto, La macinatrice e Contronatura; sorvola su nomi e fatti e situazioni fregandosene di riannodare gli snodi narrativi; e inoltre, come spesso negli autori inarrivabili o semplicemente troppo consapevoli di sé, si pone innanzitutto come manifesto, come discorso – la differenza che passa tra l’opera che si crea letteralmente sotto gli occhi del lettore, come ad esempio i Canti del caos di Antonio Moresco, e quella che esisteva già a priori, in qualche modo contenuta e già interamente pre-vista nella mente conscia o inconscia del suo autore.

Busi, Moresco, Roth, Houellebecq, e ancora Kafka, Proust, Leopardi, Sade: i paragoni vengono tanto facili quanto ingannevoli. Le vere grandi opere non sono interscambiabili, e ogni accostamento risulta fazioso perché genera l’idea, falsa, che i capolavori possano sovrapporsi e non solamente compenetrarsi, come è normale che sia dal momento che nessun’opera può mai, da sola, tracciare un bilancio davvero definitivo sull’esistenza. Eppure L’inumano tenta questa scalata, si immerge nella melma e non ne riaffiora perché sa che più un’opera si avvicina a toccare il nulla che è la vita e più ha diritto a essere chiamata arte, e non solo lista della spesa, o idolatria senziente. “Una rivolta contro i geni stessi, un’opera ultima scaturita da un errore fatale del pensiero che sia insopportabile tanto all’autore quanto al lettore, una forma fatale del pensiero già morta sul nascere”: questo è L’inumano, per chi avrà il coraggio di leggerlo, e di lasciarsi perforare dalla sua parola.

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