I’ve always been proud to be British, i don’t see any reason why I shouldn’t be. It’s a massive part of being me. It’s not like i’m flag-waving or trying to preach, this is not a political statement at all. It’s like supporting your football team, where you come from. I just think it lends itself to some really strong imagery too, and to me it fits in with the sound.” (Steve Harris)

Se dubbi vi erano sulla personalità schietta di Steve Harris dovrebbero essere fugati dalla frase sopra: c’è qualcosa di disarmante trovare, in tempi come questi, qualcuno che non si nasconde dietro ad un dito e non prova disagio ad inserire la propria provenienza come un input decisivo nei percorsi intrapresi negli anni. Ancora più limpida, sembra,  la rivendicazione di assoluta mancanza di ideologia politica e/o nazionalista in ciò soprattutto se poi, senza preoccuparsi  troppo dell’andazzo odierno che impone il culturalmente elevato e corretto a chiunque nello “show(più o meno)biz” (anche a chi predicava in tempi “sospettissimi” l’assenza di cultura come uno status da esibire con orgoglio), il paragone cade in un ambiente così profano come il football…

Da anagraficamente italiano (cioè appartenendo ad un popolo in cui la stragrande maggioranza delle persone ha scoperto l’affetto per il tricolore solo, vittorie nella Coppa del Mondo FIFA escluse, per fare uno sgarbo ai leghisti, per inciso non sono leghista: gli dei me ne scampino) dovrebbe farmi sorridere un titolo come “British Lion” ed invece, oltre che compiacermi  per il dono della sintesi del vecchio ‘Arry (più ci penso e più trovo inadatto qualsiasi altro epiteto datogli negli anni), provo un po’ di (sana?) invidia per un ragazzino del 1956 e.v. che dopo 15 album e 85 milioni di dischi venduti con il gruppo più inossidabile e marmorizzato (comunque la si veda, negativamente o positivamente) della Storia decide di dare alle stampe il suo primo disco solista sfidando chiunque, dal ’76 in poi, gli abbia attaccato addosso stanchi clichè mettendoli in bella mostra (a partire dalla “monolitica” copertina).

Tutte queste premesse per dire che sarebbe stato stupido aspettarsi un disco dei Maiden sotto mentite spoglie soliste (anche se di tali amenità ne ho letto, a bizzeffe, in questi giorni, della serie “l’umanità mi stupisce sempre: anche nello scontato”) ed in effetti, al di la di qualche richiamo qua e la (due chitarre soliste “duellanti”, ogni tanto, non potevano certo mancare), ascoltando l’album si dipanano le nebbie sul perché un’operazione di tal fatta (sia chiaro, visto il personaggio, il contesto e le modalità scelte, pensare che centrino questione economiche sarebbe scientemente stupido: poi ognuno faccia le proprie valutazioni) e mentre si apprezzano melodie, arrangiamenti, riff che potrebbero benissimo provenire dalle passioni giovanili (Wishbone Ash, Thin Lizzy, Deep Purple, The Who, UFO, Trapeze… la voce scelta da Harris per questo progetto ricorda molto quella di un certo Glenn Hughes)  e/o, più o meno coeve (Scorpions, Judas Priest…) del nostro eroe (lascio agli “scienziatelli” musicali capire come mai non ci siano influenze ascrivibili a gruppi come, che ne so, i Sex Pistols) è inevitabile pensarlo, tour permettendo, nel Pub, costruito dentro casa, ad ascoltarsi vecchi vinili/nastri esaltati, magari, dal sapore amarognolo di una pale ale o di una stout.

Trattasi di un disco hard rock vecchio stampo insomma dove si alternano i ritornelli lineari ed easy di “These are the Hands” a intro più heavy come quella di “This is my God” passando per  i riff del Metal(?) Seventy di “Karma Killer”.

Un album di cuore e potenza che non ha la pretesa di stupire (cosa ultimamente affidata troppo all’improvvisazione come se la gente avesse dimenticato l’invito del, mai abbastanza, compianto Steele, al non confondere la mancanza di talento per genio)  ma, al limite (se è lecito il termine) di abbracciare e consolare:  se di “Amore” allo stato brado si potesse parlare senza  infastidire soloni vetusti e giovani virgulti senza personalità allora ne parlerei ma, anche se non era quello che l’autore intendeva, ascolto il consiglio di non parlare su ciò di cui si deve tacere.

Mo.

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