Sarebbe interessante prendersi la briga di raccontare la genesi di questo disco partendo da molto distante. Certo, non partendo dal suo ex (?) gruppo (The Dresden Dolls) o dal funambolico litigio con la RoadRunner ma per esempio dalla nascita del suo Blog (circa 4 anni fa)  e della relativa newsletter, a cui io mi iscrissi non consapevole che sarei stato coinvolto in aggiornamenti bi(e qualche volta tri)settimanali.  Sarebbe interessante anche analizzare il fenomeno “Kickstarter” (cui la nostra ha aderito) ma siccome la noia incombe mi limiterò a rimandarvi a questo articolo abbastanza esaustivo di cui voglio solo sottolineare la frase “Come si suole dire: la ragazza si è sbattuta, parecchio. E non si è abbattuta dopo i primi mesi, nemmeno quando c'era chi la trattava un po’ come un freak digitale.

Quindi mi limiterò a parlare di questo disco (suo terzo solista): dopo l’esordio “Who Killed Amanda Palmer” (dove si faceva assassinare ma nei live di quel Tour veniva resuscitata tramite seduta spiritica “preconcerto”)  e gli altri progetti successivi era difficile immaginare con cosa la cantautrice newyorkese c’avrebbe deliziato visto  la complessità e la diversificazione stilistica  (spesso decisamente “freak” tipo nel progetto “Evelyn Evelyn”) intraprese negli anni  e, a dire il vero, anche dopo vari ascolti non è che sia così facile avere un’idea ben precisa se non una persistente perplessità euforica (o euforia perplessa come sarebbe più ontologicamente corretto).  Intendiamoci: non è un disco di avanguardia né, ovvio, particolarmente innovativo, non presenta particolari difficoltà nell’ascolto visto che l’immaginario (e l’immaginato) a cui la nostra attinge è sempre quello della Cultura Pop di marca (anche se sembra un controsenso) “dark e anarchica” (d’altronde non avrebbe coniato  e autoimposto l’etichetta  “Brechtian Punk Cabaret”) mentre musicalmente così ampi sono i riferimenti che si possono cogliere nelle varie tracce (dal solipsismo pianistico alla Amos di “The Bed Song” a quello “manierista”, come non citare Carole King,  di “Trout Heart Replica”, non inganni il titolo,  passando per gli occhiolini “New Wave” di “Want it Back” o “Massachussetts Avenue” senza trascurare il “Blues Elettrico” di “Bottomfeeder” o il “brassdelirium” in “A Grand Theft Intermission”) che la lista sarebbe troppo lunga da stilare. Dire che il tutto brilli per omogeneità quindi sarebbe una bugia ma ammettere che alla fine la sensazione a rimanere è quella di aver assistito a una sorta di strano rito meraviglioso (“It felt like listening to the soundtrack from some wonderfully anarchic musical” Richard Marcus, Music Review) non si fa certo peccato.

Un disco che cresce ascolto dopo ascolto ma che presenta dei potenziali singoli molto interessanti (tralasciando le tracce citate): “The Killing Type” (con quei coretti così “fm friendly” ma anche dei pregevoli pastiche quasi “micromusic”) e quella presa in giro del “MtvPunk” che è “Melody Dean”.

Ogni cosa va valutata secondo il periodo in cui nasce e prospera: non so se tra eoni si potrà dire che “Theatre is Evil” sia stato degno figlio dei suoi tempi (poi dipende anche da come passeranno alla Storia: noi non siamo affidabili vivendoci) io so che la mia sensazione è che, al di la delle inevitabili citazioni (in un altro campo persino Newton ammise che se aveva visto così lontano era perché stava sulle spalle dei giganti) questo sia un album aggressivamente contemporaneo (ovviamente da molti la cosa potrà esser vista come una pecca) “partorito” da una delle migliori artiste di quest’epoca.

Un’artista, la signora Gaiman, che non sembra spaventata dal “fare musica” (paura che insieme all’insoluto di pagamento è il vero male del secolo: alla faccia del relativismo di marca “ratzingeriana”) e questa, dal mio punto di vista, è cosa “buona e giusta”.

Mo.

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