L'America di “Prisoners” è un paese allo sbando, terra reietta, grigia landa che pare condannata ad un declino progressivo per un futuro traballante. Non fatevi ingannare dal fatto che uno dei due attori protagonisti in locandina sia Hugh Jackman: Mr. Wolverine è capace di recitare e sono certo che lo dimostrerà negli anni a venire. “Prisoners” non è il solito blockbuster ma uno dei thriller drammatici più belli degli ultimi anni che, tanto per fornire un metro di paragone, mi hanno portato alla mente per tensione il buon “Zodiac” di Fincher e per trama “Mystic River” di Eastwood sebbene non raggiunga le vette di quest'ultimo. A distanza di mesi considero questo film come la sorpresa cinematografica del 2013. Nel rapporto qualità/aspettative è il migliore ed il fatto che in Italia abbia riscosso miseri incassi (600.000 €) e che nessuno lo abbia recensito su debaser... Beh, tutto questo mi spinge a vomitare quanto segue.

Una tipica famigliola mulino bianco statunitense viene distrutta dal rapimento della figlia. In un baleno emergono con prepotenza il padre della bambina scomparsa ed un giovane detective in rampa di lancio. I due sono acqua e olio: non si sopportano e sono reciprocamente convinti che la controparte sia d'intralcio per un lieto fine. Ne scaturisce una paradossale corsa a due nella quale si ostacoleranno a vicenda pur avendo come minimo comun denominatore il ritrovamento della bambina e la cattura di quell'enigmatico ammasso di aggettivi negativi a caso che, senza apparente motivo, ha increspato la placida superficie oleosa di un quieto vivere. Non vi svelerò nulla della trama perché è molto ben costruita e riesce a mantenere alta l'attenzione dello spettatore nonostante la durata del film raggiunga le due ore e mezza.

“Prisoners” analizza dei personaggi in crisi che non riescono a fidarsi nemmeno di sé stessi. Esseri umani che si credono liberi sono imprigionati nel costante dubbio, nella paranoia e nel sospetto continuo nei confronti dell'altro; l'insicurezza di questa società americana contemporanea ha raggiunto livelli talmente elevati che, in fin dei conti, tutti sono talmente impauriti ed insicuri che non sono certi nemmeno di quello che fanno. Una famiglia non si unisce e si rafforza nel dolore, ma si sgretola. Il poliziotto non è quello ligio al dovere, il superman infallibile, ma un ambiguo e poco convenzionale ragazzo che utilizza metodi personali e discutibili. Il film è interessante proprio perché i protagonisti sono scentrati rispetto agli stereotipi hollywoodiani che solitamente tendono all'estremizzazione e alla semplificazione. In questo genere di opere cinematografiche, infatti, i buoni sono spesso immacolati e puri per un bianco fastidioso tanto è scintillante e fasullo. Nell'opera cinematografica di Villeneuve, invece, il padre è una persona che viola pesantemente la legge: per dare fondamenta ad una convinzione non suffragata dai fatti andrà alla ricerca della verità non avendo scrupoli di alzare le mani. Occhio per occhio perché in questa società del cazzo o fai così o soccombi. Non esiste più il sogno americano di una terra piena di opportunità e bla bla bla, ma solo paura per una sicurezza che non la riesce a trovare nemmeno nel cortile di casa. E i cattivi sono dei figli di puttana di infima e comprovata bastardaggine, questo è chiaro, ma il loro colore nel complesso non è un nero senza appello.

Le due fazioni testé descritte si incontrano quindi nel colore più sporco che ci sia, il grigio, ed io apprezzo questo dipinto di Denis Villenueve perché è certamente il modo migliore di fotografare le ambigue sfumature della realtà. Gli attori principali sono molto ben centrati. Jackman incarna il genitore che lambisce la pazzia per il dolore provocato dal rapimento: in costante procinto di vesuviare la sua ira contro chiunque osi ostacolarlo. E con un martello in mano, fidatevi, il personaggio risulta essere molto convincente. Sua moglie (Maria Bello) si spezza con un sonoro crac, ramo secco, e abbraccia l'accidia di un vivere privo di senso per una depressione pressoché infinita. Il detective (Jake Gyllenhaal, “Donnie Darko” se non vi dicesse molto il nome) sguazza nel personaggio del poliziotto ambiguo, capace e fuori dagli schemi e la sua interpretazione forse avrebbe meritato una nomination. Anche la massa tumorale dell'opera (il/i rapitore/i) è ben resa e scenografia e fotografia sono riusciti a più riprese a farmi alzare la peluria delle braccia, mentre non serbo un ricordo particolare della colonna sonora.

Ritengo sia un film fruibile per chi vuole godere di un solido thriller, immedesimarsi nel furente personaggio del padre e vedere semplicemente come finirà una storia realistica ben recitata e piena di tensione. Al contempo sono convinto che l'opera del canadese Villenueve sia più profonda e ambiziosa: la storia come una scusa per cercare di rappresentare, con il disagio e la complessità dei protagonisti, il cupo pessimismo e quella mancanza di fiducia nel prossimo che sembra aver colpito gli Stati Uniti d' America nell'ultimo decennio. In modo indiretto vengono trattati con critico cinismo anche temi quali il fanatismo religioso, l'utilizzo della tortura e tutto questo non fa che rendere ancora più completa e matura l'opera nel suo complesso.

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