A immortale sigillo della grandezza dei Pentangle stanno (anche) le celebri parole che Tony Wilson pubblicò su Melody Maker, e che ci ricordano come - a dispetto di quanto sia (ab)usata una parola come "unico" in ambito musicale - ciò che questi cinque britannici proponevano era realmente qualcosa di INIMITABILE. E ricorrendo a una metafora che non mi stancherei mai di ripetere, disse che la musica della Stella a cinque punte somiglia a un TRAMONTO - del quale puoi cogliere i colori, sì, abbozzarne un freddo elenco. Ma ben più difficile è restituirne, a parole, l'impressione d'insieme.

Pensate a una tela di William Turner: la potenza che ne emana è nelle singole sfumature, o è piuttosto nell'impatto visivo dell'immagine nella sua totalità? Provate a tradurre questa sensazione dal linguaggio dei colori a quello delle note: ne risulterà quell'alchimia inesplicabile e perfetta che era il sound dei Pentangle.

Un contrabbassista di formazione jazz: Danny Thompson. Un musicista di frontiera, sempre pronto a sfidare la sottile linea di demarcazione fra batterista e "percussionista" in senso lato: Terry Cox. Due Luminari della Chitarra acustica, onnivori ricercatori ed esploratori di universi musicali lontani, nello spazio come anche nel tempo: John Renbourn e Bert Jansch. E... un angelo: Jacqui McShee.

Eccola, la formula perfetta. La chiusura del pentagono. L'equilibrio intoccabile che si nasconde dietro alla magia del Suono.

"Sweet Child", nella sua bi-partizione interna fra live recordings ed esecuzioni di studio, è l'Album che esprime questa magia nella sua pienezza. Non il Capolavoro assoluto, magari. Ma per certo, il disco più completo. Quello in cui non manca nulla e tutto è al suo posto. Era il '68, anno campale: il Blues d'oltremanica assumeva una fisionomia sempre più "heavy", salivano i volumi degli amplificatori e alla fine di quello stesso anno il Dirigibile più famoso della storia del Rock avrebbe preso il volo, già altissimo. E mentre i Led Zeppelin puntavano al cielo, i Pentangle (e i Fairport Convention, dal canto loro transitando per la psichedelia californiana) restavano a terra e rivendicavano un legame forte con le radici, fossero quelle del folklore albionico o del Delta Blues più essenziale e, pur nella varietà delle ispirazioni, tutto nella loro musica si ricomponeva sotto un'unica, inconfondibile, cifra stilistica. E citare i Led Zeppelin come contraltare ideale non è pura convenzione: tutti sanno quanto Jimmy Page sia stato debitore della lezione di Bert Jansch, al di là del CASO (fin troppo noto) di "Black Mountain Side".

Ma raccontare la storia di "Sweet Child" significa in realtà raccontare una moltitudine di storie (quelle narrate dalle canzoni) e ri-posizionare i tasselli di un imponente mosaico in cui convivono il jazz di Charles Mingus (la variazione per contrabbasso di "Haitian Fight Song" eseguita da Danny Thompson), canzoncine natalizie per bambini (poiché questo era "Watch The Stars", prima che John Renbourn e Jacqui McShee sposassero le proprie Voci a farne la soave melodia folk che ascoltate nella parte dal vivo) e danze italiane riesumate dalle sabbie del tempo: in "Three Dances" (appunto), il passaggio da una danza all'altra è sottolineato dal silenzio degli strumenti e dai clamori del pubblico, come se la platea sessantottina si fosse d'un tratto trasformata nella corte d'una signoria del Trecento, e trova posto "La Rotta", nientemeno che una cadenza del 14esimo secolo.

Raccontare la Storia di questo Disco vuol dire anche imbattersi nel dolore lacerante, quello evocato dalla Voce di Jacqui che in ginocchio intona uno spiritual come "No More My Lord", sulle note della chitarra di Bert - "ditemi dov'è il mio Signore, e mai più da Lui distoglierò il mio sguardo..."; o riscoprire una perla rara come "Turn My Money Green", un blues degli anni '20 macchiato dell'ironia più amara che esista. E perdersi nella baraonda di "Market Song", davanti alle bancarelle d'una miracolosa fiera dell'abbondanza ("dolci mele, dolci arance - sento i mercanti gridare - venite e compratene!"), e con l'improvviso miraggio di vagare per le strade di una Londra ancor chiusa fra le sue mura medievali. E ancora, godere del dialogo fluido e cristallino delle Chitarre di Bert e John sul tema della celebre "Goodbye Pork Pie Hat", "mingusiana" anche lei, o su una "No Exit" solo strumentale, cogliendo così uno dei tratti distintivi del "Pentangle Sound". Nel lessico musicale di Jansch e Renbourn, non esisteva distanza che separasse tradizione popolare e jam-session jazzistica.

Ma anche sorprendersi nel riconoscere "The Time Has Come" fra le canzoni altrui riproposte sul palco, e poter almeno NOMINARE, in questa pagina, Sua Altezza del Folk inglese Anne Briggs, che ne era l'autrice ed ebbe a ringraziare pubblicamente Bert per un tributo fattole dal cuore. Rabbrividire sui tremori di una dark-ballad d'autore come "A Woman Like You", ideata da Jansch su un'ambigua storia di magia nera e ancestrali sortilegi amorosi. Incantarsi all'ascolto di una Jacqui sempre più celestiale, che interpreta a cappella l'antica aria scozzese "So Early In The Spring", esecuzione tanto impeccabile da non ammettere commenti. O restar seduti e lasciarsi commuovere dalla storia raccontata in "Bruton Town", che alla maniera di una novella boccacciana dipana la vicenda della passione infelice tra la figlia di un fattore e il suo servo, sospesa fra truce murder-ballad e apparizioni oniriche degne della più alta letteratura romantica.

Potrei fermarmi qui, la varietà dei mondi fin qui evocati lo permetterebbe. Eppure "rimane" (e si fa per dire) la parte in studio. E anche qui lo stesso equilibrio fra "traditionals" e originali d'alta scuola, tra improvvisazione ("In Time", "Three Part Thing" e "Hole In My Coal" su tema di Ewan McColl - classica occasione per virtuosismi finali, pur sempre ben calibrati) e antiche storie da riportare in vita. "The Trees They Do Grow High" la conoscono in tanti, se non altro per merito dell'italica versione del nostro Branduardi ("Gli alberi sono alti"), eppure su questa ballata settecentesca - e sulla sua vicenda nei secoli - si potrebbero scrivere interi libri. E' la bizzarra e tragica storia del matrimonio fra un quattordicenne e una donna di 10 anni più grande di lui, "interpretata" dalla McShee ("a 14 anni, era un uomo sposato; a 15, il padre di un bambino; a 16, l'erba era verde sulla sua tomba: la morte aveva interrotto la sua crescita" - in Branduardi l'età dei due è liberamente re-interpretata...).

E trovano spazio canzoni d'amore come la title-track - ma d'amore tutt'altro che platonico, e soprattutto... tutt'altro che a lieto fine ("I Loved A Lass" - ben nota nella versione al femminile di Sandy Denny, ma col diverso titolo "The False Bride" - recita "ho amato una ragazza e adesso lei mi sta ricompensando, per il mio amore... tant'è che sta per sposarsi con un altro!"). E ancora - pescando dal resto di un repertorio che non concede sbavatura - "Sovay", qui eseguita magistralmente da Jacqui su fitta trama di chitarre e contrabbasso (la storia della donna di un bandito), e "I've Got A Feeling", costruita sulla stessa sequenza di accordi di "All Blues" di Miles Davis.

I tanti, meravigliosi universi della galassia illuminata dalla Stella a cinque punte. 

In ricordo di Bert Jansch (1943-2011).

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