Ricorderò tutta la vita il mese di aprile del duemilaquattordici.

Forse – chissà? – ripensando alla notte del venerdì santo o al pranzo di Pasqua, magari mi verrà in mente che, in quella stessa settimana, ho pure comprato “Goga e Magoga”.

Per il momento io danzo, fino a quando mi dovrò staccare; e dovunque io vada a cadere, dirò che ho volato.

Non è la prima volta che parlo di Davide Van De Sfroos.

Vuoi perché abita ad un tiro di schioppo da casa mia; vuoi perché le sue canzoni puzzano di lago e di tradizioni; vuoi perché, semplicemente, è dannatamente bravo, il cantautore comasco è da vent’anni che mi accompagna.

Ormai ho capito che i suoi dischi escono con contagocce, uno ogni tre anni; e, se questo serve a garantirne la qualità che pervade anche quest’ultimo capitolo, ben venga l’attesa.

Chi va via ogni tanto lascia il segno: come gli anelli, la grandine e le mutande.*

“Goga e Magoga” – riferimento biblico, presente di alti e bassi, futuri e luoghi non meglio definibili – è uno splendido rosario di sedici grani, non a caso suddivisi in parti uguali tra energici brani dalle mille ispirazioni – i Jethro Tull della bella “Mad Max”, l’immancabile blues de “Il viaggiatore” – e ballate intimiste. Tra queste ultme non si può prescindere dalla straordinaria “Il dono del vento” – il brano conclusivo di ogni album di Van De Sfroos ha come musa il vento, e non di rado si tratta di canzoni di una bellezza lancinante –, dalla malinconica “Crusta de platen” e dalla commovente “Infermiera” costretta a combattere tra gli obblighi della sua professione ed un amore impossibile.

In questa notte dove si ammazzano in mille, lasciami innamorare di uno, lasciami innamorare di lui: ha aperto gli occhi e ha fatto un sorriso; e ha pure indovinato il mio nome.*

Talvolta dolci e sognanti, talvolta più inquiete "Omen", "Il re del giardino", "Colle Nero", "Figlio di ieri"; più ad ampio respiro le ariose "Angel", "De me", "Cinema Ambra", pennellate ora dall'organo, ora dalla fisarmonica; e se “Il calderon de la stria” è uno caleidoscopico mosaico di umori, sensazioni e ripensamenti (peraltro da mesi già nel repertorio degli imperdibili – sapevatelo – concerti del nostro) e “Ki” è un brano più luminoso, per quanto poco accessibile e comunque denso di interrogativi, “Gira gira” è invece uno spensierato ritratto tra soprammobili, citazioni cinematografiche e perplessità umane.

Un po’ tutti siamo bipolari, con l’orecchio sulla conchiglia per sentire il fracasso del mare; ma quando siamo sulla spiaggia, finalmente davanti al mare, la conchiglia sull’orecchia lascia il posto al cellulare.*

Il brano più emblematico, potente e originale dell’album è tuttavia proprio quello che gli dà il titolo,  “Goga e Magoga”, che peraltro gira in radio in una versione accorciata – è la prima volta che Van De Sfroos ricorre a questa soluzione. Il brano, giocato sulle ombre delle percussioni ed i lamenti del violino, a cui non mancano momenti più lirici e citazioni (per esempio la straordinaria “Akuaduulza” del 2005), è un’apocalittica e straniante cavalcata sui nostri tempi.

Goga e Magoga – se spargiamo un po’ di sangue dopo asciuga.

Goga e Magoga – tutti vogliono fare tombola: mescola!*

Sebbene a livello musicale – ad eccezione, come detto, di “Goga e Magoga”, non vi siano grandi novità (il che, almeno per quanto mi riguarda, non è necessariamente un difetto), gli arrangiamenti sono curatissimi e toccano talvolta livelli clamorosi: i musicisti del Davide – tra i quali gli affezionati Anga Persico al violino e Maurizio Glielmo alla chitarra – sono davvero bravi. Degna di nota, inoltre, la bellissima voce di Leslie Abbadini, in grado di impreziosire ulteriormente i brani di questo gioiello.

Volevamo tutto quello che non avevamo per cercare tutto quello che non avevamo più; e scappavamo da ogni posto in cui arrivavamo per cercare un altro posto da lasciarci alle spalle.*

Ricorderò tutta la vita il mese di aprile del duemilaquattordici; e questo è sicuro. Ma ho esagerato nei toni? Forse; ma sono sempre più convinto che, ora come ora, Davide Van De Sfroos sia il miglior cantautore italiano.

Si guarda la Grigna, il bicchiere piange: ordiniamo un prosecco.

* Traduzione dal dialetto laghée.

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