Ascolti estivi #1

Se quest’anno per le vostre vacanze avete in programma di farvi un bel giro in auto per terre arse dal sole, ed anche solo vagamente desertiche, di sicuro dovrete procurarvi questo dischetto.

Sono un po’ di anni, precisamente da quando entrai per curiosità in un negozietto di dischi a Fes, che convivo con una lieve ma persistente voglia di desert blues (etichetta che non vi saprei nemmeno definire). Non mi ha tolto il desiderio, a gennaio, l’aver visto dal vivo Bombino, il pastorello nomade del Niger, l’enfant prodige delle sei corde, quello che doveva essere l’astro nascente, la grande promessa del rock desertico, definito addirittura dalla stampa specializzata come un angelo di purezza a metà strada fra Jimi Hendrix, Mark Knopfer e folk berbero. Poiché non uscii esaltato dall’evento, nemmeno quella fu l’occasione per arricchire la mia collezione con un album, uno, che potesse appartenere al filone.

Poi ecco che dagli States la strana coppia Lydia Lunch & Cypress Grove mi viene incontro con quest’opera che mi attira fin dal titolo e dalla copertina. Poiché spesso agisco per sublimazione, “A Fistful of Desert Blues” poteva essere finalmente quello che cercavo, accreditato da un nome del calibro di quello della Lunch. A conti fatti non lo è stato (e poi vi spiego perché), ma “A Fistful of Desert Blues” rimane un gran bell’album che potrebbe impolverare per bene la vostra estate (sempre che qualcuno, là fra le nuvole, si decida a chiudere il rubinetto).

Cypress Grove (alias Tony Chmelik) ha militato nell’ultima fase di vita degli oramai dissolti Gun Club e la sua presenza nell’operazione di spiega benissimo, considerata la forte propensione alle sonorità southern e country-blues patrocinate dalla band del compianto Jeffrey Lee Pierce. Un po’ meno, almeno in teoria, ci possiamo spiegare il coinvolgimento nel progetto di un’icona della no-wave (ed in particolare della scena newyorkese), quel talento squisitamente “metropolitano” che è Lydia Lunch. Dovremmo invece sapere che la corpulenta singer da anni risiede in quel di Barcellona a condurre una vita - diciamo - più tranquilla: il fatto che le atmosfere dell’album si ispirino alla regione iberica dell’Almeria, ci chiarisce ulteriormente la faccenda.

La collaborazione fra i due nasce qualche anno fa in un disco-tributo dedicato proprio alla figura di Pierce, operazione in cui il devoto Chmelik mette insieme un bel cast per rivitalizzare gli ultimi frammenti di brani registrati dal suo antico mentore, stroncato da un’emorragia celebrale nel 1996. Due dei brani sviluppati durante quelle sessioni (correva l’anno 2006) vedevano la presenza ingombrante (da tutti i punti di vista) della cantante americana, con cui l’intesa deve essere stata evidentemente buona: da qui l’idea di realizzare un album scritto a quattro mani.

Giungiamo quindi al 2014: “A Fistful of Desert Blues” si compone di dodici pezzi che, pur mantenendo un unico mood (facilmente intuibile dal fin troppo programmatico titolo), mostra diverse sfaccettature, fino a rischiare di uscire fuori tema in un paio di circostanze. Giocoforza a predominare è il linguaggio della ballata crepuscolare, ammorbata dal crooning maledetto della Lunch, che, se non ha mai potuto disporre di un’ugola eccelsa, ha di sicuro carisma da vendere. La sua voce roca, oramai decrepita e devastata dall’alcool, dalla nicotina e da anni di vizi, si assesta principalmente sullo schema di sussurri/rantoli e raschianti narrazioni: un inquieto poetare che si avventa con unghie e denti sullo sferzare avvolgente delle visionarie sessioni di chitarra acustica di Chmelik, spruzzate solo a tratti da percussioni (spesso a mano) e dall’indispensabile apporto delle sei corde elettrificate, che fra strisciate di feedback, carezze slide e rari momenti di protagonismo in chiave o ritmica o solistica, si fa portatrice di una psichedelia onirica e cinematica. Con l’ovvio apporto, laddove necessario, di armonica a bocca, field-recording, basso, piano e tastiere: un risultato, in definitiva, che non si allontana poi più di tanto dall’incubo al ralenti realizzato dagli Earth in quel capolavoro che risponde al nome di “Hex (Or Printing in the Infernal Method) ”, o dalle istantanee scattate dalla chitarra improvvisata del divino Neil Young in occasione della colonna sonora del film western “Dead Man”. Forse con una resa finale fin troppo leccata, che si fregia di suoni cristallini, buoni arrangiamenti, un modus operandi che si prodiga nella cura dei dettagli e nel valorizzare ogni singola sfumatura, quando magari ci potevamo aspettare qualcosa di più crudo ed immediato. E, diciamolo: di spirituale. Ma la presunta connotazione borghese del dischetto in questione è forse solo un appunto che riguarda la mia soggettività, in quanto la musica qui riprodotta è di grande ed innegabile fascino, e sarà un piacere farla entrare in contatto con i vostri timpani mentre, sfrecciando sull’asfalto rovente dell’infinita highway, vi lascerete alle spalle il polverone e la magia di paesaggi mozzafiato.

Andando poi a spulciare le note interne, si vanno a scovare dettagli interessanti: per esempio la quarta traccia, “Revolver”, è accreditata a Mark Lanegan (che di sessioni nel deserto se ne intende), anche se poi il brano non è pescato dal repertorio del cantante, ma estratto dall’album “Ballad of Broken Seas”, scaturito dalla collaborazione dello stesso con Isobel Campbell (era sempre il 2006). Altra curiosità: in “End of my Rope” troviamo dietro al microfono Carla “Evangelista” Bozulich, sì relegata ai controcanti, ma il cui supporto diviene fondamentale per rinvigorire quello che infine emerge come l’episodio più movimentato e coinvolgente dell’album.

Negli scampoli finali dell’opera, infatti, troviamo i brani più energici, dove la chitarra elettrica torna a ruggire, esortando ad uscire tutta quella tamarraggine che era stata domata, come sopita, nelle prime otto tracce: nell’incalzante “Tuscaloosa" il cantato della Lunch si fa persino rappato (o per lo meno incapace di trattenere un'urbanità che forse è qui fuori luogo); in “The Summer of my Disconnect” il groove (basso/batteria/chitarra) aumenta fino a sfiorare i lidi del southern-rock tout court;  nella già citata “End of my Rope” (irresistibile) Chmelik si abbandona ad un assolo da brividi che finalmente esprime appieno le sue potenzialità; mentre la conclusiva “TB Sheets”, arricchita persino da una sezione di fiati, finisce per costituire un caso a parte rispetto al resto, in quanto con essa sembra che i due vogliano per un attimo fuggire dall’immensità degli spazi aperti fino a quel momento esplorati, per rifugiarsi negli umori fumosi di un night-club, dove ovviamente la Lunch si trova enormemente a suo agio.        

Se chi come me cercava una manifestazione pura, ortodossa del genere, si imbatterà invece in un’opera che, per la storia che si portano dietro i due attori protagonisti, non può avere quel rigore che il titolo suggeriva, e che inevitabilmente finisce per valicarne i confini, per abbracciare una visione più ampia e complessa di “musica desertica”, che comunque non rinnega la genuinità dell’operazione. Pertanto non vi resta che fare il pieno, lasciarvi andare ed arrendervi alla vastità senza compromessi del mondo selvaggio e derelitto di cui ci parlano Cypress Grove e Lydia Lunch!

Buon viaggio a tutti!  

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