Ascolti estivi #2   

Era stato lanciato come l’”Endless Summer” parte seconda, e gli spruzzi e gli schizzi e la schiuma delle onde ritratti dalla giocosa opener “Static Kings”, con il girare spensierato della chitarra folk perfettamente integrata alle trame elettroniche (un tutto che fa molto “estate infinita”), ce lo potrebbe anche confermare: la verità è che l’ultimo full-lenght del musicista austriaco, uscito sulla lunga distanza (sei sono gli anni che lo separano da “Black Sea”), è ancora una volta qualcosa di meraviglioso e diverso rispetto a quanto prodotto in passato.

Il paradosso è che quando si è artisti e si suona per esprimere sentimenti (e quindi, aggiungo io, suscitare emozioni), ed al contempo si è grandi ed onesti musicisti, con la sola colpa di aver re-disegnato l’elettronica contemporanea, è nei fatti difficile sbagliare anche un solo colpo, ed al tempo stesso è facilissimo deludere chi si aspetta una rivoluzione ad ogni piè sospinto. Nonostante, diranno i soliti sapientoni, la portata rivoluzionaria di un album come “Endless Summer” rimarrà oggettivamente insuperabile, e le vette raggiunte, quanto a classe ed equilibrio formale, da “Venice” e “Black Sea” saranno comunque difficilmente ripetibili, “Bécs” rimane di per sé un gran bel lavoro. Pur non stravolgendo uno stile collaudato, e conferendo maggiore forza allo strumento chitarra (che poi era ciò che più ci piaceva), approssimandosi quindi ulteriormente all’universo post-rock (che era la direzione che tutti noi desideravamo venisse intrapresa), l’opera non sfigura affatto accanto ai suoi predecessori, collocandosi, da un punto di vista stilistico, a metà strada fra gli ultimi due (“Venice” e Black Sea”) e il capolavoro “Endless Summer”. In altre parole, è un lavoro che sa guardare al passato facendo tesoro del bagaglio esperienziale nel frattempo maturato. Scansando soprattutto quello che era il pericolo principale: scorrere via, sì piacevolmente, ma con quella sensazione che il mestiere finisse per prevalere.

Il fatto è che Christian Fennesz gode oramai di uno status tale che la sua arte non ha bisogno di essere definita tramite il riferimento ad altri nomi, e che, come autore, si può permettere di evolvere semplicemente rimodellando se stesso. “Bécs”, per certi versi, costituisce quindi la summa di un’intera carriera: per questo, forse per la prima volta, non troviamo in un lavoro di Fennesz quella omogeneità che ha sempre caratterizzato ogni sua singola release (un rigore che tuttavia faceva deragliare qualche volta la sua musica oltre il dominio del prolisso): lungi dall’essere un difetto, questa maggiore varietà di approcci costituisce il maggior punto di forza di “Bécs”, nonché il suo carattere distintivo, ossia quello di essere un caleidoscopio in grado di abbracciare umori molto diversi, un po’ come ci suggerisce la variopinta copertina.

Sette brani, sette visioni differenti di un/a unico/a occhio/anima: se quindi la già citata traccia d’apertura è un excursus dai toni solari e spensierati che mette in mostra il lato più luminoso del musicista viennese (da vera pelle d’oca, se non da lacrime, il cambio di passo della chitarra nel break centrale), subito a farle da contro-altare troviamo il brano più oscuro, l’inquieta “The Liar”, costruita su solidi pattern meccatronici che si reiterano con implacabile ossessività, mentre la chitarra iperdistorta ha modo di svilupparsi e di disperdersi in droni neri come la pece. Quale sintesi di entrambe, troviamo la lunghissima (dieci minuti la sua durata) “Liminality”, che ci offre il tipico crescendo fennesziano, ossia quella perfetta fusione fra intimo glitch ed impetuoso post-rock, di cui il Nostro, soprattutto in sede live, è un maestro indiscusso: aperto da timidi contrappunti di chitarra acustica, presto il brano troverà consistenza, vigore e coraggio nel montare ostinato di un robusto arpeggio elettrificato, appena mitigato da tappeti di tastiere in sottofondo che zigzagano sinuose penetrando in una materia vischiosa ed infuocata. 

A mettere le cose a posto arriva la provvidenziale “Pallas Athene”, un celestiale intermezzo di organo, in occasione del quale il viennese indossa le vesti del corriere cosmico e scova per noi un’oasi di pace ambient che ci permette di riprendere fiato per un istante. La bellezza di “Bécs” sta proprio nella sua ricchezza cromatica, nel suo perfetto avvicendarsi di pieni e di vuoti, di caos e di assenze, comunque sempre percorsi dal quel fil rouge che è l’estetica/poetica di Fennesz, votata all’espressione di un’intimità fragile e a tratti incandescente. Parte del merito, in questo rigoglioso fiorire di suoni e colori, va ai vari collaboratori (Martin Brandlmayr e Tony Buck alle percussioni, Cédric Stevens al sintetizzatore, Werner Dafeldecher al basso), chiamati a dare maggiore consistenza ad un suono che da sempre ama svilupparsi in bilico fra digitale ed analogico.

Fatto il giro di boa, ci si avvia alla conclusione dell’opera ripercorrendo il medesimo sentiero in senso inverso: la title-track riprende i suoni distorti e deflagranti della terza traccia e, ancor di più che in quella, in questa si preme con maggiore convinzione sul pedale del distorsore (tanto che potremmo tirare in ballo certi stilemi del weird-black metal, cosa che va molto di moda dire oggi in ambito elettronico – anche se, al di là di tutti i preconcetti, un brano del genere potrebbe francamente essere ospitato in un lavoro come “Filosofem” di Burzum). “Sav” è un’altra indispensabile parentesi, che tuttavia ha ben poco di celestiale: come la seconda traccia, il colore predominante è il nero, sebbene qui la foga della chitarra elettrica venga sostituita dal cupo meditare di un ambient dalle vaghe movenze esoteriche, ove i suoni grevi dei sintetizzatori vengono percorsi e scossi dall’affiorare di un inquieto e spigoloso rumorismo sottocutaneo. E’ come se (alla faccia di chi diceva che “Bécs” sarebbe stato il reprise del capolavoro “balneare” del 2001) il cielo dell’”estate infinita” venisse attraversato da nubi minacciose. O forse, più semplicemente, non è che siamo sul finire dell’Estate, a Venezia, soggiorniamo all’Hotel Paral.lel e ci stiamo affacciando su un denso e quieto Mare Nero?

A tratteggiare, con i colori tenui e delicati del tramonto, la conclusione di un’esperienza intensa, sono i suoni puliti, appena riverberati, della chitarra acustica di "Paroles", breve rito di purificazione in cui non trovano dimora, finalmente, le interferenze droniche: questo è il sigillo con cui si chiude l’ennesimo felice parto di un artista che, a più di tre lustri dal suo esordio, non vuole saperne di gettare la spugna e smettere di emozionarci.

Un grande.

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