Ascolti estivi #3    

Anche se non è proprio corretto parlare di “ascolto estivo”, includo in questa breve serie di recensioni l’ultima fatica discografica (la sesta) di Mark Kozelek sotto la ragione sociale Sun Kil Moon.

“Benji”, sebbene sia l’opera di uno spirito inquieto e dal passato problematico quale è l’ex leader dei Red House Painters, benché l'album sia animato da una forte spinta introspettiva ed assuma le fattezze di un viaggio interiore che parte dalla sfera biografica per estendersi a riflessioni di carattere universale, e quindi sia tutt’altro che un’opera leggera o di facile assimilazione, ben si presta alla bella stagione, in quanto luminoso, meditativo, evocante paesaggi della mente che, nella testa dell’autore, sono quelli della soleggiata country-side americana, caratterizzata da ampi spazi, campi di grano, vie che si perdono nel nulla, l’abbaiare dei cani da guardia, alberi o fattorie ogni tanto messi lì nel mezzo a spezzare la linea dell’orizzonte. Un cielo terso sopra i prati verdi a connotare un’epoca di innocenza e purezza, oramai lontana nel tempo, che s’intende evocare, ma non in nome di una distorsione patetica ed edulcorata effettuata attraverso le mistificanti lenti di un’amara e consapevole maturità (Mark Kozelek ha oggi quarantasette anni).  

Come accadeva in “Nebraska” (di cui “Benji” è un diretto discendente), il discorso ha origine dal microcosmo di piccole storie di vita, dall’esistenza apparentemente insignificante di piccoli uomini e di piccole donne, di tutti coloro che nascono, crescono, muoiono all’ombra del Sogno Americano; un discorso, questo, che finisce con il toccare i temi classici della Vita e della Morte, della complessità/insensatezza della prima e dell’ineluttabilità della seconda, e quindi delle ingiustizie, del destino beffardo, della crescita, della disillusione, dell’accettazione e della scoperta di se stessi attraverso il passato. “Benji” è una carrellata di struggenti istantanee pescate dall’album dei ricordi di Kozelek, ed è fatto della stessa materia con cui sono fatti gli uomini e le donne (la madre, il padre, gli affetti, gli amici) che popolano il mondo interiore dell’autore, che mai come in questa circostanza ha ardito scavare così a fondo dentro se stesso e dentro la sua coscienza.

Immagini, ritratti, attestazioni di stima o di semplice affetto, un’emotività sull’orlo di frantumarsi, ma anche solida e capace di slanci costruttivi, slanci volti al risanamento di strappi che si credeva insanabili: tutto questo richiede che i brani assumano una veste adeguata al percorso di auto-terapia che è in atto. Stilisticamente parlando, la componente rock viene ulteriormente erosa in favore di una forma di cantautorato impostato principalmente sul binomio voce/chitarra acustica. Nonostante a questo album partecipi uno stuolo nutrito di persone (fra cui spicca il nome di Will Oldham, il quale, con la sua voce, presterà servizio in ben tre pezzi), il sound punta al minimo indispensabile, e in questo percorso di accentramento di tutto attorno alla figura di Kozelek (che canta e suona la chitarra, il basso e lo xilofono laddove necessario), l’unico contributo rilevante rimane quello del batterista Steve Shelley (non a caso il secondo della lunga lista), che con le sue sporadiche comparsate dietro alle pelli va a dare un sostanziale rinforzo all'economia del tutto.       

Sebbene quasi tutti i brani siano di altissimo livello, molti di essi amano indugiare su un languore melodrammatico che può stuccare coloro che non sono proprio amanti di un indie-folk ridotto all’osso. Vale la pena quindi menzionare quelli capaci di ergersi da questo stato di cose. Per esempio “Truck Driver” (terza traccia) evoca niente meno che il Leonard Cohen di “Songs of Love and Hate”: in essa la voce di Kozelek, carezzevole nelle due canzoni precedenti, si fa di colpo spettrale e le corde pizzicate della chitarra divengono il fremito di un sismografo emotivo che minaccia terremoti e catastrofi immani. Poi ci sono “Dogs” (quarta traccia) e “Pray for Newtown” (quinta traccia) che si sviluppano in modo analogo, costituendo entrambe una sorta di mantra che origina dalla voce con la sola chitarra, per poi svilupparsi attraverso impercettibili variazioni, fino all’irrompere liberatorio della batteria di Shelley che picchia in modo ossessivo portando a termine brani che potrebbe non finire mai.

Menzione a parte merita “I Watched the Film the Song Remains the Same” (ottava traccia): capolavoro nel capolavoro, nei suoi dieci minuti di durata, si regge in piedi grazie al magnetismo della voce e al suono delle parole di Kozelek, uno struggente stream of consciousness con il quale si ripercorre l’infanzia dell’autore attraverso le immagini simboliche del documentario sui Led Zeppelin dal quale prende il titolo la canzone. “Richard Ramirez died today of Natural Causes” (nona traccia) ricalca lo schema (a mio parere vincente) già visto in precedenza: quello che prevede un incipit a base di chitarra e voce (anche questa volta moltiplicata in una sorta di paranoico dibattito interiore) ed una prosecuzione/conclusione affidata ai dettami ritmici di Shelley a spezzare l’impostazione monocromatica dell’album. “Ben’s My Friend (undicesima traccia), infine, porta con sé un inaspettato fascino radiofonico: i fiati sornioni ed una chitarra spagnoleggiante rischiarano le trame di un album sofferto, ma che, nonostante tutto, ha la forza di chiudersi all’insegna di una distensione dei toni, distensione che lascia un buon sapore in bocca e invita a premere nuovamente il tasto play.  
   
Ovviamente la selezione dei brani citati è stata effettuata secondo i gusti personali di chi scrive, ma è importante precisare che anche quelli non riportati sono degli ottimi esempi (soprattutto per quanto riguarda la controparte lirica) della maturità cantautoriale raggiunta dall’inquieto ex leader dei Red House Painters, autore di un album che si candida di prepotenza al titolo ambito di disco dell’anno. Per bellezza intrinseca, ma anche per importanza, considerato il suo peso specifico all’interno di un panorama odierno che è sempre meno in grado di partorire lavori da consegnare alla Storia.

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