Spesso mi chiedo quale sia il significato di recensire album usciti molto tempo fa…

La risposta viene spontanea pensando un po' all'esigenza, che un po' tutti abbiamo, chiamata "sindrome della parete bianca" e un po' dal fatto che (spesso) colpevolmente piccole gemme vengono dimenticate.

Questo e' il caso dell'omonimo debutto (appunto chiamato dai fans anche "Debut Album" per via della fascetta che ricopriva la versione originale) del duo di Manchester che non solo non e' stato ancora recensito da nessun appartenente alla specie "DeBaseriana", ma addirittura trova pochissimo spazio anche in altri siti sia nazionali che internazionali. Questa oltre a essere una mancanza assume contorni ben piu' strani se si va a vedere che gli altri tre album della coppia (artistica) Rhodes-Barlow hanno giustamente una bella recensione ciascuno su queste pagine. Provero', allora, a rituffarmi nel '96 e dare una mia visione del primo lavoro di quello che, a mio parere, e' stato ed e' ancora uno dei progetti piu' importanti nell'ambito della musica elettronica.

Il '96, si diceva… ovviamente quando si parla di musica "sintetica" e' impossibile non ricordare che in quegli anni era imperante (anche se gia' in declino, a mio parere) quel fenomeno ribattezzato "Bristol Sound" con Portishead, Massive Attack e Tricky come punte di diamante di un movimento fatto di abili fusioni Pop, Jazz e Drum 'n Bass, il tutto confezionato con la presenza spesso di samples accattivanti. Questo fatto produsse non pochi problemi a "Lamb" che di fatto si trovo' (a torto) gia' etichettato ancora prima di nascere (Quante volte ho sentito la superficiale frase: "I Lamb? Uguali ai Portishead."…).

Invece gia' dalle caratteristiche dei due membri qualche unicita' si poteva cogliere: Andy Barlow, infatti, non solo era un ottimo D.J. ma anche un abile polistrumentista (figlio d'arte tra l'altro) tirato su a pane e Jazz e la voce di Louise Rhodes era abbastanza atipica come presenza in quegli anni perche', citando un mio amico; era "una folk-singer prestata all'elettronica" e il lavoro solista dell'anno scorso lo dimostra ampiamente. Da queste premese non poteva che nascere qualcosa di molto particolare: quello che caratterizza innanzitutto il cd e' l'assoluta (e apparentemente caotica) dicotomia tra ossessivi ritmi quasi jungle e la presenza raffinata della linea melodica del cantato che spesso sfiora il pop, basta ascoltare "Cotton Wool" o "Lusty" per rendersene conto.

Tra acrobazie ritmiche (ma mai "senza Rete", cioe' molto controllate) e melodie comunque sempre molto chiare e strutturate, ad emergere e' una certa malinconia (magnifico l'incipit di "Gorecky"!) che rende tutto l'ambiente in cui si muovono le canzoni cupo e misterioso, ma non triste (come ad esempio l'omonimo dei Portishead) ma semplicemente sospeso in una dimensione in cui all'inizio ci si trova spiazzati tra la scelta di farsi ammaliare dalla poco convenzionale voce della Rhodes o dai stranissimi loop di Barlow. Per questa difficolta' nel seguire il filo logico conduttore a un primo ascolto, l'album non fu inizialmente accolto benissimo ne' da critica, ne' dal pubblico, ma ebbe una sorta di riconoscimento postumo.

Per fortuna chi non si fece spaventare da quest'osticita' iniziale, ben presto, con il seguirsi degli ascolti , si rese conto di aver tra le mani quacosa di speciale. Impossibile non farsi ipnotizzare da canzoni come "Transfatty Acid" in cui senza calcare troppo la mano sulla sperimentazione (anzi il tutto si puo' orgogliosamente definire a-sperimentale) Barlow disegna ritmi sintetici ma nei quali non si puo' non cogliere un calore spesso alimentato dalla presenza di una Rhodes che gioca tra l'esser molto invasiva ("Gold" ne' e' un chiaro esempio) e l'esser molte volte solamente uno strumento non comune posto li a completare un progetto che altrimenti sarebbe fin troppo minimale. Minimalismo che ad un ascolto distratto puo' annoiare, infatti questo non e' un disco da metter su finchè si fa altro (stirare per esempio..) ma da ascoltare con la calma con cui si maneggia qualcosa di fragile, perche' l'abilità del duo inglese e' appunto quella di confezionare un prodotto che ogni volta sembra implodere ma alla fine rinasce sempre quasi rinfrancato dall'esser stato sottovalutato ("Zero" e soprattutto "Closer" continuano a darmi quest' impressione). Insomma se proprio devo dare una etichetta direi una sorta di "Fragile Unconventional Trip-Hop" che e' stretta ma va gia' meglio rispetto ad altre…

Un discorso a parte meritano le liriche, quasi tutte di genere romantico e volte alla ricerca (o forse, chissa', alla nostalgia) dell' Amore (si con l'A maiuscola) idealizzato e per un sentimentale come me cadere nella rete e' stato fin troppo facile! La cosa importante comunque da dire e' che probabilmente il poco clamore che si creo' attorno al disco ne ha alla fine esaltato le doti di fondo che sono quelle di tentare di stupire con delicatezza e tenere in serbo per tempi piu' consoni inutili sperimentazioni, anzi cercare la via piu' rischiosa cercando di "evitare le buche piu' dure".

A un certo punto Louise canta: "tutto quello che tocco e' oro", non so se altrettanto si puo' dire di quest'album che comunque rischia di scontentare molti, ma certo le emozioni ci sono eccome…

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