And my soul from out that shadow that lies floating on the floor
Shall be lifted – nevermore!

The Raven - E. A. Poe

Sembra dire proprio questo tutto quel ramo del metallo più oscuro, depresso e tetro. Una prova straziante di questo pensiero ci arriva stranamente dall’Iran. Si, avete letto bene, dall’Iran. Questa band, formatasi e scioltasi nel giro di pochi mesi (da quanto si può capire; nella rete è praticamente impossibile reperire informazioni su questa entità musicale), proviene da un paese lontano dal nostro modo di vivere, lontano dal metal, lontano dalle sonorità care ai doomster più neri e alle anime più tetre. Nonostante ciò, un velo nero è intessuto da questi musicisti e se nessuno vi dicesse da dove provengono, sicuramente li assocereste a uno dei soliti paesi "depressi".

La prima ed unica opera è intitolata “Portrait Of A Dream” e risale al 2005. E’ un ritratto disperato, plumbeo, di un sogno musicale straziante, quasi un incubo. Si cammina ad occhi chiusi e con le mani sulle orecchie, espediente infantile per difendersi dai mostri che ci sono fuori, i mostri della paura. All’inizio di “Igneous Lips” è il silenzio che incontriamo, un silenzio che gradualmente si spegne mentre si accende il lamento di un synth cullato da note di pianoforte, tutto adagiato su un letto etereo e disperato. La lenta batteria entra e la disperazione delle vocals in growl ci azzannano. Verso il termine le tastiere si gettano in un “canto” di dolore, accarezzandoci il cuore. Passano così poco più di 9 minuti, senza accorgersene. Pizzicato e nenie di violino per l’intro di “Final Wish”, stroncati da effetti d’organo e clavicembalo nerissimi, con chitarra distorta quasi oppressa dalla tenebrosità dei growl squarcianti e lenti. E’ tutta disperazione: o ci si rialza o si molla, sta a noi la scelta. L’organo finale sfuma, come in una nube d’incenso; e il piano, le tastiere e i sussurri di “Your Fancy” ci catturano, dandoci un momento di respiro. E’ come vedere l’uscita da un lugubre labirinto. E’ una malinconia che si sublima, si mescola a lacrime di liberazione. Una piuma che ondeggia nella brezza. “Moon’s Heart” ritorna nel nero e nella lentezza di un funeral doom mescolato alla dark ambient. E’ come una processione, lenta, sofferente. La forza dobbiamo trovarla dentro di noi, per combattere, resistere. In aiuto ci arriva la delicatezza poetica della titletrack, la finale “Portrait Of A Dream”. Il piano è protagonista di una dolce malinconia, un miele “triste”. Ma è un sollievo per il cuore, annerito e trafitto dalla disperazione. E’ un adagiarsi, sfiniti, e abbandonarsi al sognare, delicatamente cullati nella notte.

Il tutto è molto emotivo, sicuramente apprezzabile e ben fatto (soprattutto considerando la provenienza), ma non mi sento di dare un 4 pieno. Forse in futuro potrei cambiare idea, ma al momento il mio voto è un 3,5 approssimato per difetto. Lavoro comunque consigliato agli amanti delle sonorità e delle suggestioni sopra descritte.

Come detto all’inizio, il gruppo si è sciolto poco dopo la registrazione dell’album. Nella formazione (a quanto pare composta da 3 o 4 elementi), c’era anche una donna. Sembra che la causa dello scioglimento sia stato l’ostracismo nei confronti del metal e soprattutto la negazione della libertà della donna (la componente della band ha dovuto mollare il progetto su imposizione del marito, a quanto ho capito). Che il titolo, “Portrait Of A Dream”, faccia riferimento al sogno di potersi esprimere, di poter creare musica dal cuore, senza restrizioni? Di questo sogno ora ci rimane il ritratto, da conservare e ammirare.

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