La scrittura di Natalie Merchant è inconfondibile. Il suo stile, la sua firma, il suo tratto caratteristico. Scrive come si compone una tela, immortalando scene, dosando i colori e mescolandoli. TANTI colori, al punto che in pochi suoi affreschi è dato riconoscere un tono dominante. E ha l'immaginazione d'una sceneggiatrice, la capacità di tessere trame come di limitarsi alla successione di istantanee, lasciando a te-ascoltatore il compito di ricostruire l'ordine che fa capo a tutto.
Se ad esempio ascolti bene "Can't Ignore The Train", primo capitolo di un Album per me difficile da dimenticare, e ne segui il testo passo passo, ti accorgi dopo poco che la narrazione non c'è. Non c'è una sequenza logica di eventi, ma una serie di flash improvvisi e cambi repentini di inquadrature e tonalità: il blu del cielo, la notte che avanza silenziosa nella valle, una stazione, luci elettriche, una ragazza, bambini che giocano per strada... e una donna su una sedia, in uno scenario di grigiore apatico senza emozioni (LA donna e LA sedia della copertina). E tra una scena e l'altra: un treno, un treno, e ancora un treno. L'intervallo fra un treno e l'altro segna l'impalpabile scorrere delle ore, dentro un (anonimo) paesaggio americano di provincia in cui persino la percezione del tempo sembra alterata, irreale.
I Maniacs di "The Wishing Chair" raccontano questa America lontana, sfumata e imprecisa nei contorni, indefinita nello spazio e nel tempo. Natalie ne era l'anima cantautorale, Rob Buck (un altro di Quelli che non ci sono più, e rincresce dirlo) l'anima strumentale, l'uomo che assieme ad UN ALTRO Buck (...) contribuì a definire - a metà degli '80 - i tratti della nuova musica alternativa americana.
In quella fatidica primavera dell'85, la band di Jamestown non era l'unica band statunitense in soggiorno a Londra, dove questo esordio per una major prese forma. C'erano anche quattro signori di Athens che già avevano all'attivo un EP e due long playing, e che come i Maniacs erano in studio a registrare le loro "favole della ricostruzione" con un certo Joe Boyd... un'istituzione del folk albionico, un luminare del suono che aveva lavorato coi Fairport Convention dell'era-Denny, e con una sfilza di Nomi quali Incredible String Band, Nick Drake e John Martyn. Discreti Nomi, non c'è che dire...
...e lo stesso Boyd è l'uomo che sta dietro a "The Wishing Chair". Tradizione britannica e college-rock a stelle e strisce s'incontrano, e dall'incontro scaturisce un Disco d'una bellezza rara, mai scalfita dal tempo, non meno profondo e vario del successivo "In My Tribe"; melodie e soluzioni strumentali originalissime (s'alternano o si combinano: mandolini, chitarre a 12 corde, fisarmoniche, steel guitars e dissonanze elettriche...) sono frutto del lavoro di ricerca di Rob Buck e di John Lombardo, l'altra pedina fondamentale nel gioco; si studiano e si trovano alchimie sublimi, cui persino gli stessi R.E.M. sarebbero arrivati anni dopo: nei sognanti intermezzi acustici si sentono già strani echi di ciò che sarà un album come "Green", e mentre si ascolta "Back o' The Moon" o "Everyone A Puzzle Lover", con quel mandolino - su quel ritmo, non può non venire in mente "Losing My Religion"... Persino il Paul Simon di "Graceland" viene battuto sul tempo con un pezzo come "Daktari" (assente nell'originale versione in vinile ma aggiunta su CD), in cui Africa e Caraibi si confondono passando per la Louisiana e le pianure del Sud.
E poi, e poi... c'è l'Assolo di Rob su "Scorpio Rising" che è una scala mobile per il cielo, raramente la chitarra elettrica ha toccato simili vette di lirismo; c'è l'Irlanda rivisitata con la sensibilità del country nel ri-arrangiamento di un traditional come "Just as The Tide Was a Flowing"; c'è la dolcezza interpretativa di Natalie che con la sua Voce rende magnifiche "Lilydale" e "Grey Victory", in cui l'organo di Dennis Drew e l'elettrica di Buck si completano nel disegnare chilometri di campi e distese di fiori; ma anche le tensioni, a tratti emergenti, di un post-punk visionario e lontano dagli sterotipi - in "The Colonial Wing", per esempio, o nel Capolavoro "My Mother The War", quando una chitarra geneticamente modificata e imparentata con certo "Paisley" inizia a risuonare come una distorta e "velvettiana" viola.
Ma alla fine i lampi psichedelici si spengono, le vibrazioni si attenuano e torna il sereno. E tutto si conclude danzando a tempo di valzer sulle note di "Arbor Day" - e con l'allucinazione di essere nel giardino di una villa coloniale della Georgia, all'ombra di una quercia e a temporale appena passato...
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