I 14 Iced Bears non sono altro che l’ennesimo rimasuglio di ciò che la coda finale degli anni Ottanta ha generato. Provenienti dalla mai troppo amata scena Indie Pop inglese, con una pubblicazione sull’allora influente label Sarah Records (il singolo “Come Get Me”), Rob Sekula e Kevin Canham – gli unici membri stabili nella line up del combo di Brighton – cercano di ascrivere in un flusso di “vorrei mai non posso” i connotati di un movimento intero, di cui non riusciranno mai ad esserne il fulcro (sempre che un fulcro vi si possa rintracciare).
La ricerca melodica sembra essere il baricentro dell’opera intera, in un susseguirsi di litanie tanto appiccicose quanto ricercate, non tanto per risultato qualitativo, quanto per assenza di pretese. “We Are The Normal” cantava qualche (ex) emulo dei Replacements, ed i 14 Iced Bears ci sono totalmente dentro. Non ci sarà la poetica di Westerberg, ma lo stesso gusto per la forma canzone Pop mai fine a se stessa. Gli intrecci chitarristici di Canham più volte rimandano ad una sorta di Smiths filtrati attraverso l’irruenza artistica dei Television Personalities. Un viaggio andata e ritorno al di là della Manica. Così possiamo trovare brani totalmente incastonati nei dettami stilistici della scena “jangly” inglese, con inni del calibro di “Hold On” (una progressione paragonabile a dei The Field Mice meno wave) o il monumento pop “Love On A Sugar Mountain”, talmente inserita nel contesto Indie Pop britannico, da poterne diventare uno dei simboli. Il tutto diventa più che pregevole quando la band si muove su territori decisamente meno anglofoni come l’eterea “Things Are Things” che paga pegno ad atmosfere rarefatte sovente rintracciabili nell’Indie Rock formato U.S.A. o quando si spinge sull’acceleratore, come nel caso di “Eyes”, un brano che avrebbero potuto scrivere gli Husker Du dopo un thè delle cinque con la regina Elisabetta. Degna di citazione anche la penultima traccia “Red Now” che riesce ad avvicinare la band ad un archetipo musicale prettamente psichedelico, come tradizione Inglese insegna, senza però perdere quella vena melodica onnipresente ed irriconoscibile che fino a quel momento li ha sempre contraddistinti. Nel mezzo buone perfomance che non fanno altro che mantenere inalterato il livello qualitativo dell’album, arricchendolo talvolta di pregevoli spunti che, con il senno di poi, avrebbero meritato sicuramente più considerazione come “Smooth In The Sun”, una sorta di anthem da stadio per occhialuti Indie “kids”, o anche “Rare (Like You Are)”, suadente mid tempo scandito, nel suo incedere, da ritmiche rotonde e morbide.
Seducono ed abbandonano gli orsi di Brighton, vi rimangono attaccati alla calotta cranica per poi andare a sfumare silenziosamente, senza lasciar traccia. Dopodichè rimarrà solamente la convinzione che, tutto sommato, avrebbero potuto sicuramente raccogliere di più, in tempi di semina florida come l’inizio degli anni Novanta. Ma questa è completamente un’altra (conosciuta, abusata e, perché no, solita) storia.
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