"If I were Cain".
16 cavalli vapore nelle stracciate vesti di tre musicisti.
Nel 1995 i 16 Horsepower pubblicano "Sackcloth 'n' Ashes". Ma per David Eugene Edwards e compagni il 1995 non è un anno dall'identità univoca. Nick Cave ha già seminato i suoi maligni semi e ha già concluso la violenta avanzata di un gruppo che nessuno vorrebbe vedere alla propria festa di compleanno. I Joy Division sono precipitati da 15 anni nel suicidio di Ian Curtis, mentre Jeffrey Lee Pierce sta per sparare contro se stesso l'ultima sua pallottola di eroina.
I 16 Horsepower raccolgono le vesti sacrificali e le ceneri lasciate lungo la strada da questi loro numi tutelari e, indossate le prime e cosparsi delle seconde, si abbandonano ad un funebre ritorno al XIX secolo. Un'epoca moderna disperata, furiosa, a perenne contatto con la morte entra con furia e circospezione nello stesso mondo archetipo su cui si muove l'"infante glabro e smisurato", il giudice Holden, il simbolo della perenne malvagia intelligenza dell'uomo e della Terra, creatura di Cormack McCarthy.
Edwards è una radice deviata dell'albero della canzone americana. Una radice con un talento unico ed immenso nello scrivere canzoni epiche, antiche, semplici come solo le melodie eterne possono essere. Accompagnato dal tappeto ritmico compatto ed intelligente creato dall'ottimo batterista Jean-Yves Tola e dal contrabbassista Keven Soll, Edwards diventa pittore e profeta. Banjo e concertina diventano i pennelli del quadro di una religiosità dove la divinità amorevole dell'iconografia cristiana lascia posto ad un dio in eterna lotta con il maligno.
"Black Soul Choir" è il massimo (e non isolato) capolavoro di "Sackcloth ‘n' Ashesh"
"Ain't none ever seen the face of his foe no
He ain't made of flesh & bone
He's the one who sits up close beside you
An when he's there you are alone"
Il demonio annidato nella solitudine, presenza e assenza ad un tempo, mostro opposto all'ubiquità divina. L'assenza di speranza nel prossimo, gocce di pioggia su una terra troppo arida. Un dio che "is the one you keep cold on the outside, girl". Un continuo arpeggio di banjo, un contrabbasso, una batteria. Un crescendo musicale, un volto lacerato dalla divorante consapevolezza che il Male, religiosamente considerato o meno, ha forze superiori a quelle del Bene.
"Black Bush" è un grido nel deserto; è quello che i predicatori dell'Antico Testamento avrebbero cantato se trasportati dai deserti dell'Asia Minore a quelli americani. Mai, nel cristianesimo che conosciamo, la speranza per la risurrezione della carne e per la potenza del Risorto sono state dipinte con tanta fervida passione: ma anche qui la geniale melodia esprime inquietudine, non gioia; e con essa tensione, pianto, estasi, rabbia.
"Look, see, his bones are gone
He done left the grave
The grip of death it could not hold him down no
It's for him that I rave".
" Neck On The New Blade" è una fosca ballata per voce e concertina degna di una Parigi trapiantata nella polvere e derubata di tutti i suoi abitanti. Come in "6" Gold Blade" di Nick Cave anche qui lame e omicidi si fondono in musica, derubando un'anima di se stessa in nome di un amore cresciuto in follia.
Un coro di anime oscure, strumenti che furono polvere e tornarono in legno e metallo, un anno dal volto diviso in due, antico e moderno. Un Dio che fugge la sua casa terrena, usurpato dal nemico. Un amore figlio e padre del dolore, cresciuto tra lame rosse di sangue e baracche di legno.
E David Eugene Edwards, in piedi nella polvere.
Carico i commenti... con calma