Uno degli esperimenti più originali della scena inglese di inizio anni '80 è da ricercarsi nella musica dei 23 Skidoo. Questo terzetto infatti, dopo due EP e un 33 giri che ne definirono via via la personalità, coniò con questo disco un linguaggio particolare, molto personale, che almeno apparentemente si distaccava dalle influenze più alla moda del periodo. In realtà la loro musica metabolizzava quelle influenze, ovvero funk, dub, industrial, attraverso una sintesi che ergeva a protagonista un solo elemento: il ritmo. Tutto il loro sound infatti si basava sulle percussioni, soprattutto di matrice orientale. Come si evince dal titolo dell'album, i 23 Skidoo erano molto attratti dalle sonorità indonesiane, esotiche e molto spesso anche esoteriche. Non fecero altro, quindi, che compiere un'operazione di trasfigurazione, rivedendo quelle sonorità alla luce delle nuove tecniche occidentali, un pò come fecero quelli della On-U Sound col reggae dei neri.
Quando si odono le grida disperate di un vietnamita ferito vuol dire che è già partita la prima traccia, "F.U.G.I.", un funky sincopato, che nasconde però venature industriali. L'opera di mascheramento è dovuta ai loro poliritmi orientaleggianti portati in primo piano, lontani come suono dalle cacofonie elettroniche degli estremisti "classici", ma vicini nello spirito malato del genere.
Nella successiva " Fire" entriamo in pieno territorio dub, con un cupissimo ed opprimente rombo di basso, dal quale nascono ammalianti note di chitarra, perfette per una danza del ventre, e sotto il quale si snoda un percussionismo a metà fra l'estatico e il tribale, davvero seducente. Il brano suona come lo avrebbe suonato Mark Stewart se avesse avuto gli occhi a mandorla.
Il disco si fa via via più sperimentale nel suo procedere, tanto è vero che già la terza traccia, "Misr Wakening" strizza l'occhio all'avanguardia, col suo passo onirico da giungla notturna, costellato da inquietanti ticchettii di bamboo. L'Africa è la grande madre di "Jalan Jalan", un viaggio notturno tra i villaggi, le tribù vodoo, segnato da un ossessivo ritmo tribale da rituale purificatorio. Si va così avanti sempre più affascinati da queste atmosfere stranianti, tra gli scampanellii scintillanti della title-track e della brevissima e indemoniata "Sirens", le ipnotiche trame di "Helicopterz" e "Kongo Do", sino ad arrivare a "Language Dub", 5 minuti di grande percussionismo, tra colpi di gong e sferragliate metalliche di xilofono, dove tutto ciò che può dare ritmo viene fatto vibrare nell'aria, dando vita ad un'orgia occulta e morbosa. Il passo rallenta nuovamente in "Drunken Reprisal", preludio alla conclusiva e sferzante "Coup de grace", un crescendo che si fa via via più violento, che acquista forza col passare dei secondi sino a quando si arresta e sferra il colpo finale, quasi come fosse una mossa di kung-fu.
Disco anticipatore e suggestivo, rappresenta sicuramente una voce fuori dal coro nel suo periodo, forte di un'originalità davvero rara, e di un fascino che seduce poco alla volta col passare degli ascolti.
Non è un lavoro di facilissima digeribilità, ma assaporato coi tempi giusti regala soddisfazioni molto apprezzabili.
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