I 270bis sono una band poco conosciuta, per tutta una serie di motivazioni legate alla loro storia politica, su cui non starò qui a tediarvi. Chi volesse, può documentarsi su wikipedia, ma vi anticipo una cosa: tenete da parte i pregiudizi, perché in quest’album di politico (nell’accezione comune) c’è ben poco. Un desiderio di libertà e di giustizia, un misto di speranza e rassegnazione, di fronte a soprusi storici e diritti negati, pervade i testi: semplici, profondi, commoventi. Sonorità penetranti di strumenti genuinamente registrati, chitarra acustica e sassofono in primis, accompagnano un viaggio attraverso un mare di emozioni in cui l’ascoltatore è immerso. Si comincia con Masha, la storia semplice di un contadino, che rappresenta un’intera classe sociale, a cui è stata sottratta la sua terra, e con essa tutta la sua vita: song ritmata da accordi semplici, con la calda voce di Marcello De Angelis che scuote, commuove e penetra nelle ossa. Si procede con Siuil a gra, in cui sulle cupe sonorità del tessuto acustico domina la voce femminile, bellissima, di Chiara Ciavardini, che si articola su ottave irraggiungibili ai più. “Il poeta” è un altro racconto fatto di poesia e sopruso, di coraggio e libertà negate, dal finale drammatico ma intriso di speranza, perché il sacrificio non sia inutile, perché, nonostante tutto, il segno che lasciano i giusti rimane indelebile nel tempo. In “Nanni è partito” il tema è sempre quello del racconto di un estremo atto di libertà, di volontà di non piegarsi alle ingiustizie, ma questa volta la storia è rivolta immaginariamente ad un bambino, fratello della vittima, e per questo assume connotati fantastici. Il tema dell’unione e dell’affetto fraterno è ripreso in “Nella tua stanza”: l’atmosfera cupa e malinconica è quella del carcere, in cui il tempo si ferma ed i pensieri volano liberi attraverso le sbarre. Cominciano poi pezzi più progressivi, un crescendo che parte da “Chi più mi prenderà” (altro inno alla fuga, alla libertà ottenuta solo al costo della vita), passa attraverso “La bambina” (suggestiva figurazione di un sogno), “La giostra del cuor” e “Nannannà…” (istantanee odierne di sentimenti universali), e culmina infine nella più articolata “Canto di un Sufi metropolitano”, che ricorda vagamente un Battiato malinconico, forse la canzone più complessa (se di complessità di può parlare) di un album che fa della semplicità il suo punto forte.

Una registrazione che non ti aspetti da un album autoprodotto, una delle migliori in mio possesso, contribuisce a rafforzare il pathos, con strumenti (prevalentemente acustici) e voce caldi, equilibrati e poco effettati.

Un genere difficilmente inquadrabile, direi rock acustico per dare un’idea. Un album malinconico e introspettivo, magistralmente inciso: tracce che lasciano cicatrici nell’anima e quando subentra il silenzio ti bloccano sulla poltrona come quei film capolavoro che capitano di rado. Da riascoltare per tutta la vita.

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