Le cose possono essere consumate sia calde che fredde. Ad esempio il tè se lo schiaffi in frigo diventa buonissimo. Pure il funk non scherza, anzi nella sua versione gelida e bianca io addirittura lo preferisco. Son venuto su male, mi sa. Una povera ochetta stregata da un imprinting wave.
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“Suona più velocemente, ma più lentamente”, diceva Martin. La bellezza non ha spiegazioni, se non insensate.
Intanto il grigio/bianco delle nuvole in cielo sembra quello di uno scheletro sul nero di una lastra. Niente di strano, i primi A Certain Ratio non facevano canzoni, ma radiografie.
Tutto ridotto all'osso. Anzi no, forse nemmeno le ossa ci sono più. Ci son solo parvenze e fantasmi.
“To Each” in certi momenti è puro Francis Bacon, il sublime inteso come indicibile, l'indicibile inteso come orrore. Del resto anche Francis Bacon faceva radiografie.
L'unica differenza è che la musica consente uno spazio di fuga, mentre l'immagine, irrespirabile e claustrofobica, è invece fissata per sempre.
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La scala cromatica di “To each” fluttua tra grigio e bianco. Toni freddi che attraversano cupe trasparenze.
Cosa nasconde il bianco ?
“C'è nell'intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all'anima di quel rosso che atterrisce nel sangue”, così Herman Melville.
Cosa racconta il grigio?
Il grigio è il cielo di Manchester, il grigio è la stasi. Ma colpito da un raggio di luna si trasforma in argento, colore della malinconia e dell'intuizione
Un'intuizione beninteso tristissima.
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“To Each” mi ricorda “L'occhio del purgatorio”, un vecchio romanzo di Jacques Spitz dove un tale vede le cose come saranno nel futuro.
All'inizio succede che la coscia di pollo che gli servono al ristorante è uno schifoso avanzo smangiucchiato qualche giorno prima, poi, in uno spietato crescendo, il mondo gli marcisce davanti agli occhi fino a che si ritrova a passeggiare in mezzo agli scheletri.
Il brano finale di “To Each”, “Winter Hill”, è una specie di rumba per anime sfiancate. “Musica etnica aliena”, direbbe Caspasian.
Ispirandosi a un disco molto fricchettone che in genere ascoltavano sotto acido, gli A Certain Ratio jammano come smandrappati bonghisti al parco, una sistuazione non proprio da gelidi wavers, ne converrete.
Tutto però viene raffreddato da uno spesso strato di ghiaccio. E così quel che che vien fuori è un incubo tribale e futurista, una trance da visi pallidi con l'anima a meno venti di temperatura.
Ecco, io “Winter Hill” me la immagino danzata dagli scheletri di Jacques Spitz. Non solo, vedo pure le ossa scricchiolanti trasformarsi pian piano in polvere.
Altro che i dervisci tourner che girano...
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Prendi una combriccola post punk, aggiungi un produttore con la testa tra le nuvole e il batterista più funkadelico di Manchester, ovvero Joy Division meet Talking Heads. I Talking Heads però immaginali grigi.
Ian Curtis invece è finito dentro un incubo sintetico, un mezzo spasmo geometrico e nervoso spezzato da acuminati break jazz.
Sei triste amico? Questo groove lo è almeno quanto te. E allora perchè non balli?
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Che dire poi di quei coretti femminili che compaiono ogni tanto. “Puntini di sospensione tra visioni d'orrore”, diceva uno di mia conoscenza. E allora ragazze, Cristo santo, mettetevi li e sussurrate, dovete cantare il mistero come se non ve ne fregasse un cazzo, belle come siete sarete pure in grado di fare le dee annoiate, no?
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“To Each” è un capolavoro.
Il suono possiede una strana qualità immateriale, decantazione dice qualcuno, quintessenza dice qualcun altro.
Come altri eroi dell'epoca, penso ai Contortions penso al Pop Group, i primi A Certain Ratio mescolavano punk, funk e jazz. Ma, mentre i primi erano soprattutto stridenti ed eccitanti, qui è tutto come sospeso in aria.
E' che c'è un magician dietro e quel magician è il produttore Martin Hannett, uno che al suono prima “succhiava il midollo” e poi “strappava le palle”. Alla fine metteva tutto in una bolla.
“Suona più velocemente, ma più lentamente”, diceva. La bellezza non ha spiegazioni, se non insensate.
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