Suono-siderurgia: come se ne sono perse (pressoché) da innumerevoli anni le tracc(i)e, quella estroflessa a pieni (mega)watt dai Signori (ahem...) Emphysema (guitarra), Colera (bass) und Ricketts (fustini Dash...); i tre Seattle(seriously)malati in quaestionem amalgamano e propugnano, tramite rivitalizzata SubPop, il proprio (o)scurissimo, fosco/roccioso quanto notevolmente fruibile, terzo nascituro, dal programmatico (pruriginoso ?) titolo “Black Forest”.
Monsieur Eric (Emph.) Sullivan, recently said: “Quelli che ascoltano punk, hardcore o garage ci guardano storto [magari non segnatamente per quanto musicalmente espresso, aggiungerei... n.d.miserrimo de-recensore]: siamo troppo “strani” per loro; mentre quelli che ascoltano musica “ strana” ci trovano troppo punk”: parole sante, verrebbe da replicare all’enfisemico intervistato. Con alle spalle due pressoché introvabili ed autointitolati lavori, contrassegnati dal semplice sequenziale numero primo, gli arcigni clango-rockers si audio-collocano tra lurido e asfissiante suono-cinismo di matrice Amphetamine Reptile fine eighties/primi novanta mesciato a cospicui strati di corrosion of (sound)conformities di Big Black attinenza.
La (a tratti) rabbrividente ed impenetrabile “Oscura Foresta” risulta componimento (musicale) solidamente intrigante quanto degno di massima auricolar-attenzione: duro nei suoni, spigoloso e ostico nelle suono-evoluzioni; nei frangenti più refrattari und deliranti assume tonalità pseudo robotiche/lobotimizzate (“Age Of Progress” o “Black Forest III” né sono lungimiranti examples): una impermeabile ed arcigna sound-corazza esteriore, ciò nonostante (nella sua naturale scarsa fruibilità di base) sorprendentemente scorrevole e godibile in virtute di una mirabile (quanto algida) costruzione vocal/ritornelliana all’interno degli stessi brani.
“Negative” defenestra dai sibilanti altoparlanti uno dei riff più saturi et malati, nonché meravigliosamente coinvolgenti, (chiara la dipendenza Melvins-iana, era “Bullhead”), sentiti negli ultimi conchiudenti dodici mesi; oppure “U Boat” con le sue nerborute quanto stordenti bass lines e vocalità sobriamente seriose, nonostante e sotto la dura scorza composita da grezzi e scorticati suoni, rimanda a determinate e note atmosfere Joy Division-iane dei tempi andati. Disco tanto (acusticamente) disincantato, intrigante e imprevedibile quanto, per converso (de gustibus) inaccettabile dal punto di vista meramente testuale: titoli come “Death Train” o “Eva Braun” inseriti in un lirico-contesto “dedicato” (per stessa ammissione della Banda) alla Seconda Guerra Mondiale lasciano non troppo spazio a eventuali (s)oggettive, oblique quanto differenti e/o poetiche rasserenanti interpretazioni. Sperando (vivamente) di venir contraddetti... Fate Vobis. (As usual)
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