Questo disco è una bomba!
I newyorkesi A Place To Bury Strangers vincono la sfida del fatidico terzo album, spietato banco di prova per qualsiasi artista che si ritrovi a gestire un successo insperato nell'arco di pochi anni. Al terribile bivio fra “rimanere” o “andarsene” i Nostri scongiurano la piaga del meteorismo (nel senso di scomparire nel nulla dopo un principio folgorante, che credevate?) e riaffermano la loro identità che è solida e ben oltre il “volevamo tanto essere i Jesus And Mary Chain”. Lo shoegaze degli A Place To Bury Strangers fugge ogni tentazione di manierismo, il temuto sbilanciamento verso i lidi del rumore bianco, e semplifica il proprio sound condensando ricerca sonora, soluzioni ed imprevisti assortiti nell'arco dei tre/quattro minuti del formato canzone, concentrandosi su quello che poi davvero conta, ossia il song-writing.
“Worship” è un disco diretto, undici pezzi per quarantaquattro minuti che scorrono senza un momento di cedimento e senza mai annoiare. Paradigmatica “Alone” che apre l'album all'insegna di ritmi martellanti di batteria battente e scartavetranti linee di basso, presto raggiunte dalle immancabili peripezie chitarristiche del deus ex machina Oliver Ackermann, con tanto di chitarre sotto forma di caccia-bombardiere che decollano roboanti nel finale. E che dire della terremotante “Mind Control”?: un tour de force di distorsioni, riff in continua mutazione, un vocione dark spalmato su un batterismo nervoso, contro-tempi mozzafiato ed uno spietato tu-pa-tu-pa nel ritornello. E dire che la batteria di Gavin Haag, responsabile di una prova maiuscola, è più meccanica che non si può, tanto che, per suoni e dinamiche, ci può sembrare una drum-machine (comunque impiegata in un paio di pezzi: nella ballabile “You Are the One”, sofisticato pop d'autore, e nel lentone “Slide”, pervaso da atmosfere notturne e suoni acidi, l'unico frangente in cui i nostri decidono di allentare il piede sull'acceleratore). Pure il neo-ingressato Dion Lunadon si difende bene dietro alle quattro corde: un basso, il suo, ruvido e trasudante punk ad ogni colpo di plettro.
E' ovvio tuttavia che tutto il sale di questa opera, data la preparazione di Ackermann sia sul versante tecnico che tecnologico (considerato che progetta e commercializza effettistica per chitarre tramite la sua fortunata Death By Audio) sta nel notevole lavoro di chitarra, un furore elettrico che non sembra avere posa, un treno in corsa che conserva la virulenza punk, pur nella perenne ricerca di effetti sempre nuovi, senza disdegnare evidenti concessioni all'orecchiabilità e soprattutto sempre fantasioso e al servizio di pezzi catchy, orecchiabili, sprizzanti energia, che sanno flirtare tanto con la dark-wave che con il garage e il rock'n'roll.
E così la titanica title-track, con il suo imponente riff iniziale, sembra uscire fuori direttamente da “Pornography”; nel finale di “Fear” le chitarre s'ispessiscono fino a sposare la causa dello stoner più stordente; in “Dissolved” vengono nuovamente chiamati in causa i Cure, quelli di “Boys Don't Cry”, questa volta; il ritornello sfibrato della fantasmagorica “Why Can't Cry Anymore” osa tingersi persino dei toni sanguinolenti dei Christian Death di Rozz Williams, mentre nella rockettona “Revenge” udiamo echi morrisoniani. “Leaving Tomorrow”, l'ultima incredibile cavalcata, sembra infine scippare lo scatenato riff portante dal repertorio degli Iron Maiden (e non è un caso che proprio lì ci suoni la batteria Allen Bickle dei metallici Baroness!). Incisiva nel complesso la prova vocale di Ackermann che, quando si fa ombroso, somiglia tanto allo spirito resuscitato di Ian Curtis, ma senza mai rinnegare un inveterato amore per il rock più sfrontato.
Si sarà notato, fra le altre cose, che mi sono permesso di non citare i My Bloody Valantine (imprescindibile fonte di influenza per Ackermann), che a questo giro non ritrovo così in evidenza, latitando quell'impostazione eterea e sognante – benché squisitamente elettrica – che ha fatto la fortuna di Kevin Shields. No, in “Worship” i sentimentalismi sono banditi, questo disco è una bomba, una vera bomba, un disco giusto per gente giusta, come noi del resto, da sparare a tutto volume, da bere in un fiato, la mattina appena svegli e per tutto il resto della giornata.
Perché se questo “Worship” ha un pregio, il suo pregio è proprio quello di saper creare un post alla musica degli A Place To Bury Strangers allontanandosi dal noise tout-court (dimentichiamoci le denotazioni rumoristiche del capolavoro “Exploding Head”) per abbracciare una concezione di musica colta che non necessariamente deve scuoiare i testicoli, ma sa intrattenere e a tratti stupire, se non spiazzare (si pensi alla ripartenza della title-track, il cui riff attacca nuovamente dopo una manciata di secondi di silenzio a tre quarti del pezzo, o alla duplice “Dissolved”, praticamente due canzoni in una).
Perché gli A Place To Bury Strangers hanno il coraggio di giocare a carte scoperte e quello che accade dentro a “Worship” è in fondo quello che accade nella copertina, che ritrae i soliti grattacieli di New York, ma visti da una nuova ed interessante prospettiva e con nuovi e bellissimi colori.
GET IT!
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