La tiritera imbastita da Barry Craig (aka A Produce) è legittima quando mette a fuoco la scena californiana a me tanto cara dove nel 1982, nella presentazione della Trance Port Tapes, è interessato all'idea di trance presente nei differenti linguaggi musicali che fanno uso di elementi ipnotico/ripetitivi non solo nella sua forma minimale.
Da lì la produzione di una serie di musicassette di artisti fedeli a quell'impostazione di libere spirali fino al lavoro oggi all'attenzione (che sforna nel 1988) che si potrebbe inquadrare d'acchitto come musica d'ambiente, ma che ad un ascolto più profondo rivela striature multicolori di inserti di vari generi.
La base è un tappeto cosmico che sorprende per la sua modernità che si basa su una quotidianità effimera di obiettivi sconosciuti. La raccomandazione di "play this record loud" è da seguire perché l'aumento di volume ti avvolge senza disturbare, anzi ti gratifica con una profondità conturbante conquistata. La corposità delle atmosfere poi fanno scattare un quid che ti dà la sensazione di stare a sentire movimenti psichici, pensieri, arie che stanno vicino a te e che ti parlano, ma che non ci avevi fatto caso fino ad adesso.
L'innesco di varianti che si appoggiano su sensazioni fa risultare l'usufrutto del prodotto scevro di aspettative materiali. Non si monetizzano speranze di piacere consumistico e ci si ritrova in un basculamento che non dà funzione alle cose e tu, persona umana, ti senti sollevato nell'incontrare un'entità che non gioca sulle dualità e che impersonalmente rivela impalpabilità e non ti coinvolge in un ammicco menzognero.
Sembra che la scaletta dei pezzi scandiscano una giornata particolare vissuta dal di dentro dove il rumore della frizione del corpo con l'esterno viene accantonato a favore del proporre riverberi dell'attrito della nostra anima col grossolano, trasformandolo in rarefazione. Ogni brano comunque, nella sua trasformazione meditativa, rimane pieno, scaltro, dinamico, antico.
Lo smaterializzarsi si mistifica nell'unica canzone cantata da Daniel Voznik (Ashes of Love), vecchio compagno degli Afterimage, dove echi glam wave destabilizzano la trappola della tranquillità che ci eravamo creati ascoltando la prima facciata.
Dunque un disco che rifugge l'aspetto consolatorio ponendosi al di fuori di se stesso, come se queste arie si osservassero dall'alto con un distacco non premeditato ma come riflesso all'immediato. Il sottrarsi ad una classificazione ambientale aiuta a scoprire il prodotto come un coacervo di occasioni per non cadere in tentazione di inglomerare in sterili confini uno strumento poliedrico che si dimostra "agere".
La grafica della cover aiuta ad interpretare il minimalismo sonoro alfine grasso, che lubrifica la traslazione tra le diverse consistenze dove, tra priorità intime di vario coinvolgimento, un ponte è gettato. PLAY LOUD! Mi raccomando...
Carico i commenti... con calma