Destrutturazione di tutti i concetti di musicalità espressi sinora.

Musica di non facile approccio, quella degli A Spirale, composti da Mario Gabola al sax alto, Massimo Spezzaferro alla batteria e Maurizio Argentano alla chitarra.

Gli A Spirale sono un Power Trio campano dedito a un jazzcore sperimentale che non fa tanto presa sull’impatto ritmico, il frastuono assordante o la tecnica strumentale, bensì focalizza la propria esplorazione sonora sulla ricerca della destrutturazione di ogni forma di equilibrio armonico e del non porre limiti all’atonalità e alla bizzarria folle e sperimentale di questo loro ultimo “Agaspastik”, licenziato nel 2009 dalla Fratto9/Under The Sky.

La Criptica alchimia sonora del trio è un impressionante calderone dove confluiscono le più barbare fusioni avanguardistiche degli ultimi anni: ambient, noise, free jazz, impro rock, stridii e ronzii quasi industriali, vibrazioni e riverberi elettro-magnetici in continuo divenire, un interscambio continuo tra generi urticanti, tutti di non facile assimilazione o catalogazione, un vortice di rumorismo cerebrale che tocca i suoi vertici massimi in “Kaluti” traccia numero sei di questo album.

Sembra, infatti, di assistere al viaggio notturno di un sottomarino sotto profondità oceaniche, fredde, ostili e caliginose.

Musica che fa percepire dimensioni eteree ed inesplorate, immagini distorte e amplificate, come quella delle profondità oceaniche, di un sommergibile o della forza distruttrice della natura, sia essa acqua, fuoco o terra.

Non mancano i momenti più jazz rock dal forte impatto, anche se relegati più a una semplice esibizione dimostrativa più che a fedeli esempi di musicalità vera e propria. “Black Crack,” “Calco” e il dirompente inizio di “Tersicore” che alla fine implode su stessa su di un battito elettronico.

Ma la scorza dura e pura degli A Spirale emerge prepotentemente e si misura in pezzi come “Naja Tripudians” o la spettrale “Suriciorbu” otto minuti di noise ossessivo e puramente istintivo, in cui i tre strumenti si intersecano continuamente creando un architetttura sonora nevrotica, spastica e profondamente disarmonica: lo stridio delle note di sax e chitarra, la batteria che si risolve in un cinico battito di piatti o charlestone, un minimalismo malato e multiforme, e per questo a suo modo, altamente coinvolgente e disturbante.

Lo sconsiglio fortemente a chi cerca nella musica una compiutezza, una cifra stilistica o un songwriting preciso e abbastanza delineato, per tutti gli altri invece l’esperienza dell’ascolto potrebbe risultare appassionante, a patto che saprete godervi questo “Agaspastik” senza esagerare e senza volerlo per forza “capire” o “etichettare” dopo il primo ascolto.  

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