Mi ha sfrantumato le balle per settimane, l’altra metà del progetto a due teste (matte ed ingovernabili) riunite sotto la pregiatissima insegna Margahead, insistendo, insistendo ed insistendo ancora senza ritegno: «Ma allora DeMa, la scriviamo qualche riga? Mi avevi promesso di fare la tua parte, tempo fa ...».
Tirando giù Cristi, Santi e Madonne a più non posso, sono quindi costretto a fuoriuscire dal caldo letargo nel quale da tempo ero piombato, lasciando campo libero alla bestia Genital Grinder.
Mi tocca di mettere in piedi in fretta e furia (non immaginate quanta) la recensione di «Freedom Of Choice», dischetto che fa la sua apparizione nell’autunno del 1992, proprio quei meravigliosi anni Novanta che abbiamo vissuto, io e quell’altro, in prima fila dal punto di vista musicale: dieci anni che hanno saputo regalare una miriade di band e generi che ancora ricordo con assoluto piacere.
Ma ho divagato già troppo, è tempo di tuffarmi a capofitto dentro «Freedom of Choice».
Dice tutto, o tanto, il sottotitolo «Yesterday’s New Wave Hits As Performed By Today’s Stars», in soldoni, le hits radiofoniche degli anni Ottanta reinterpretate dai gruppi che imperversavano all’alba dei Novanta.
Il disco è prodotto dalla neonata label tedesca City Slang per una nobile causa, ed infatti i proventi delle vendite sono destinati alle associazioni che negli Stati Uniti si battono per il diritto delle donne alla libera scelta in materia di aborto; da qui il titolo della raccolta, che è poi un brano dei Devo. E se la memoria non mi è d’inganno il prezzo di vendita dell’opera era decisamente abbordabile e qualcuno se lo accaparrò all’epoca sborsando nemmeno tremila lirette, rinvenendolo tra i bucati sottocosto.
Disco solare, adatto per la stagione, peraltro: diciotto i brani riproposti, nella maggior parte dei casi in modo fedele agli originali; da ascoltare al mare, in montagna, al lago, in casa, da soli o con amici in qualche sperduta festa. Insomma ascoltatevelo quando, dove e come vi pare e piace, basta che ve lo ascoltiate, questa è la mia missione!
Sappiate che c’è da sorridere e da divertirsi e di certo non ci si annoia con tali sonorità, lo attesta con insindacabile certezza l’entità a due teste (e quattro corna, ma facciamo anche due) Margahead! Con un artwork che stuzzica nell’accostarsi al disco, e non dico altro riguardo l’avvenenza della fanciulla … e della collezione vinilica alle sue spalle, salvandomi in calcio d’angolo. Tanta, tanta sana invidia.
Pronti? Via.
Questo è il meglio del meglio, quello che non potete permettervi di ignorare.
Si parte a manetta con i Sonic Youth che rumorizzano a dovere «Ca Plane Pour Moi» di Plastic Bertrand: chitarre abrasive di sottofondo a quei coretti accattivanti che riempivano le piste da (s)ballo, quando ballare era un’arte e per riempire la pista ci volevano pezzi mostruosi, proprio come lo era «Ca Plane Pour Moi»; un luminescente gioiello multicolore, impossibile non piazzarlo in apertura per dichiarare ogni intento in modo inequivocabile.
Non c’è tempo per rifiatare, perché arrivano i Muffs di Kim Shattuck – fresca di fuoriuscita dal sodalizio con Paula Pierce nelle Pandoras – a colorare di sgargianti chitarroni e riffoni in puro stile ’77 la meravigliosa «Rock’n’Roll Girl»; e, roba da non crederci, c’è gente che «Rock’n’Roll Girl», i Beat, Paul Collins ed il power pop li hanno conosciuti così. Io l’ho sempre detto che l’ignoranza è una gran brutta bestia, per cui a «Freedom Of Choice» andrebbe reso grazie ogni santo giorno che viene sulla Terra solo per aver fatto conoscere agli ignavi tanta musica deliziosa da stropicciarsi i padiglioni auricolari.
Arriva subito la terza bomba, «How Much More» delle grandi Go Go’s rifatta magistralmente dai Redd Kross. Ragazzi, che gruppo clamoroso che furono i Redd Kross, oggi si direbbe che suonassero indie, ma quando si formarono alla fine dei Settanta, suonare indie era una terrificante e debordante miscela di garage, hard e punk che scuoteva le viscere più profonde; alle prese con un brano strepitosamente melodico, i Redd Kross fanno sfracelli. Semplicemente devastanti, da conoscere ed approfondire costi quel che costi.
E poi è la volta dei campioni del Seattle Sound imperante: i Mudhoney rendono da par loro «Pump It Up» di Elvis Costello, ruvida e zoppicante come quella voce – che voce – cartavetrata o al vetriolo decidetelo voi, tanto la sostanza non cambia di un grammo; i nuovaiorchesi Das Damen alle prese con la bellissima «The Wait», tratta a forza e con impeto furibondo dall’esordio dei Pretenders, e non la si rimpiange nemmeno un po’, e d’altronde cosa attendersi di meno da un gruppo che collaborò a vario titolo con Thurston Moore, i tipi della SST, Wayne Kramer, ditemelo voi se non questa versione spaccaossa di «The Wait»; ed ancora i Polvo, banda math rock quando il math rock non era nemmeno all’orizzonte e che sarebbe riduttivo dire seminale, alle prese con «Mexican Radio», e questa nemmeno ve lo dico di chi sia in origine, ma voi ascoltatevela una, dieci, cento volte e ne trarrete godimento sempre maggiore; fino all’epilogo con i Superchunk che brutalizzano simpaticamente «Girl U Want» dei Devo con dissacrante ed energica attitudine un po’ punk, un po’ hardcore, un po’ power pop, in altre parole una sintetica ma imprescindibile scarica di pura adrenalina.
Magari sì, non tutto gira proprio a meraviglia, alcuni episodi sono prescindibili e penso in particolare al rifacimento di «Five Foot One» di Iggy Pop; ma se poi, a fronte di un paio di episodi poco riusciti, ti ritrovi come ricompensa autentiche esplosioni di genio come «Tainted Love» dei Finger, «Wuthering Heights» dei White Flag, e più di tutto e sopra tutto il resto una «Dreaming» degli Yo La Tengo bella fino alle lacrime … se ti ritrovi con tutto questo, allora il gioco è valso appieno la candela.
«Freedom Of Choice» è un disco bellissimo, di quelli che non se ne fanno più. Dategli un ascolto, vogliatevi bene.
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