Correva l'anno del signore millenovecentosettantasette e il piccolo andisceppard, già allora appassionato di musica (di quella musica che oggi si chiama prog) assisteva impotente alla nascita di quello strano fenomeno che va sotto il nome di musica da discoteca. Per lui - abituato a perdere giorni e notti nel vano tentativo di decifrare le allegorie, le metafore, gli enigmi di quel maledetto capolavoro che è The Lamb Lies Down On Broadway - il diffondersi di questa nuova roba (che chiamarla musica sembrava decisamente fuori luogo), di questi testi, in cui si invitava a muovere il sedere, di questa gente, festante, sudata, vacuamente allegra, fu decisamente un trauma (non l'unico, probabilmente, commenterà magari qualcuno).


Inutile nascondervelo, nella mia umile e modesta magione - anche se di anni ne sono passati, e parecchi - non alberga alcun disco di quel genere lì. Di quelle batterie tum tum tum. Di quegli urletti e di quelle melodie banali. E non vi parlo delle tante sere in cui ho millantato di aver subito un intervento al menisco pur di non partecipare a scuotimenti e dimenamenti vari.


Oggi - però - ho deciso di parlarvi di musica da ballo. Certo, in modo un po' strano (ma ligio alle regole, alzo la mano destra dico lo giuro!). In un modo obliquo. Vi parlo di un ritmo. Di una musica, di una cosa.

Inizio. Se vi va (e se mi riesce) cliccate qui sotto.


Io, mentre ascoltate, cerco di intrattenervi, con qualche parola. Fino alla fine del brano.

Come un DJ. All'incontrario.


Di una cosa, una musica, che quando la senti ti prende, come prima cosa, in testa. Lester Young, Teddy Wilson. Love Me Or Leave Me.


Lester introduce il tema. È un tema semplice, carino, facile da ricordare. Lo introduce. Poi ci gioca. Si allontana, ci ricama sopra. Poi, quando non te lo aspetti, ci ritorna. E lo riconosci. E non è più solo la testa, ad essere felice. Arriva Teddy. Stesso tema. Mille variazioni. Mille ricamini. Dolci, intimi, segreti. Stessa voglia di giocare, non di comporre opere, capolavori. Solo voglia di una bella cosa. Che ti prende in testa, ma non solo. No, non solo. Non ti sentirai John Travolta. Non si accenderanno, di colpo, le famigerate stroboscopiche della vostra (mia) adolescenza. Però vi ritroverete a ballare. Non dimenandovi. Non come in discoteca. No, è un ballo diverso. Leggero, intimo, segreto. Non si balla in discoteca. No, magari in una stanza. Magari da soli, magari in due. Ma si balla. Lentamente, segretamente, intimamente. E non ti molla. Non è da ascoltare con le casse a palla. No. In cuffia, piuttosto. O in sottofondo. Ma tanto, c'è poco da fare, non ti molla più. Puoi andare in giro, smettere di ascoltarlo. Ma ti ritroverai a fischiettarlo. E magari a fare qualche passo.


Finito? Io sì.


Paolo Conte, Nottegiorno.



Scoperta per caso, in televisione. Io, la televisione, la guardo pochissimo. Oddio, qualche volta guardo proprio il televisore. Spento. Mi rilassa. Ora, credo non sia difficile riconoscere analogie con il brano di prima. Ma non è l'anno. Non sono gli strumenti. Non la nazionalità di chi suona, e canta. No, guardate come si muove Milva. A parole è difficile dirlo. Per questo mi aiuto con le immagini.


1956, l'anno di Pres and Teddy. 1943 quello di cui canta Milva.


Nell'anno del signore millenovecentosettantasette, o giù di lì, un piccolo andisceppard, stordito e impotente a fronte del diffondersi di quella strana roba che porta il nome di musica disco, scopriva una cosa.



Ancora non lo sapeva, gli altri due brani li avrebbe scoperti molto tempo dopo. Però - disperato - nella sua cameretta, si ritrovava a ballare. Non a dimenarsi. Non sentendosi John Travolta. E senza stroboscopiche, per carità. Ma con un ritmo, una cosa, che parte dalla testa. E che ti fa muovere, lentamente, segretamente, tutto.


Non un ballo che si fa in discoteca. No, magari in una stanza. Magari da soli, magari in due. Non con le casse a palla.


Una cosa più intima. Che parte dalla testa, e che va giù, fino alla punta dei piedi.


Tutto qui. Questa gente balla. Ogni tanto capita anche a me.

O forse sempre. Come se questa cosa, questo ritmo, piccolo, non urlato, solo sussurrato, ce l'avessi un po' dentro da sempre. Come se ogni cosa, ogni avvenimento, ogni movimento, ogni cosa che faccio, fosse solo una brutta coreografia di questo ballo.


Questa gente balla. E in questo momento anch'io.


Però - per favore - non ditelo in giro.

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