DOVE STA DI CASA LA MUSICA NAZIONALE AMERICANA? Il classicismo populista di Copland non mi convince
L’interesse di quest’album che raccoglie quattro lavori del compositore newyorkese Aaron Copland è di testimoniare il tentativo (verso gli anni trenta del novecento) di stabilire una variante nazionale della musica accademica americana capace di coniugare forme e stilemi “classici” con i motivi ispiratori del folklore musicale locale. Non che fosse una novità assoluta visto che anche in Europa in quegli anni soffiava forte il vento dei nazionalismi musicali (mi viene in mente l’opera di Bartók e quelle in precedenza di Dvoŕák e Smetana) ma certamente lo era nel contesto statunitense. Considerando che ben presto la leadership culturale si sarebbe spostata dal vecchio al nuovo continente, come avvenne a partire dagli anni cinquanta, in che conto possiamo tenere questo primo assaggio (le melodie western dei cowboy o della frontiera messicana più una spruzzatina di ragtime inquadrate nelle forme europee di una sinfonia o di un balletto) di populismo musicale americano? Certamente interessante da un punto di vista storico, molto meno – almeno per me - da quello emozionale. Andiamo per ordine. Le note del libretto accompagnatorio forniscono un’ottima traccia all’ascolto e la foto in copertina non potrebbe essere più iconica per stuzzicare il nostro immaginario cinematografico, oltre che sposarsi visivamente con la «Outdoor Ouverture» che apre il disco. La direzione di Andrew Litton per la Colorado Symphony Orchestra ha la sua giusta brillantezza e Litton di suo ci mette la simpatica performance come pianista honky tonk nella parte centrale di «Rodeo», ma è proprio la musica di Aaron Copland che non mi convince. Ascolto e resto lì, non mi fanno male le orecchie ma non ho nemmeno il batticuore. Sarà che ascoltare la musica per un balletto senza vedere il balletto vuol già dire partire in salita! Dei due che ci sono in questo disco è «Billy The Kid» il più deludente, forse perché spezzettato in ben undici “movimenti” tutti (tranne uno) piuttosto brevi per cui ho sempre l’impressione di ascoltare il frammento di un’idea musicale che non riesce mai a svilupparsi. Le cose vanno un po’ meglio nel secondo balletto - «Rodeo» - che di movimenti ne ha cinque, ciascuno di congrua durata e vivacizzato da più esplicite citazioni “nazionali” (il ragtime piano detto sopra e poi alcuni western folk tunes fino alla quadriglia del finale). Restano le due suite, che sanno farsi apprezzare: l’iniziale e luccicante (anche se un po’ pomposa) «Outdoor Ouverture» e la suggestiva «El Salón México» che metabolizza il folklore messicano senza eccessi coloristici. Insomma, complessivamente un album di buona musica che però non (mi) scalda l’animo e per me va più nella direzione di Hollywood (la musica da film) o di Broadway (il musical) che rincorrere l’ambizione di costruire su basi “accademiche” un nuovo parametro di musica autenticamente popolare americana. La quale invero già esiste (ed esisteva anche all’epoca di queste composizioni) ed ha le forme del jazz-blues. Disco consigliato per chi ancora avesse un dubbio e poi volesse confrontare con Duke Ellington. Per chi invece volesse prima valutare un altro punto di vista sulla musica di Aaron Copland, per i due balletti compresi su questo disco (ma con la direzione di Leonard Bernstein) c’è già su questo sito una recensione quasi parallela di Grasshopper, bella e interessante: il dibattito è aperto.
Carico i commenti... con calma