Recensire "The lexicon of love" degli ABC è un po' come commentare "Viaggio al centro della terra" di Jules Verne. Sono tutte e due opere che iniziano un genere artistico totalmente nuovo, frutto però di una contaminazione da molteplici generi esterni. Quindi a cosa si può associare il "Viaggio al centro della terra" degli ABC, una sperimentale corsa al nuovo che più vecchio non si può, al nocciolo di una cosa conosciuta solo in superfice ma sotto la crosta totalmente ignota? Il sentimento più antico e ingovernabile, che regge in piedi l'umanità, ma a un suo piccolo spostamento quest'ultima crolla. Sto parlando dell'AMORE, il romanticismo che impregna l'album di debutto di una apparentemente umile band britannica, che da un giorno all'altro si ritrova a guidare (seppur non a lungo) il carro coloratissimo e camuffatissimo del Neoromanticismo musicale, meglio conosciuto come "New romantic", che farà la fortuna di gruppi come "Visage", "Spandau ballet", "Culture club", "Duran duran" e gli stessi ABC e che marchierà a fuoco, delimitandone attitudini e confini, la realtà musicale dei primi anni ottanta, uno dei periodi musicalmente più omogenei della storia della musica.
Perché non fu certo un caso che nello stesso anno (1982), in un colpo solo, uscirono i quattro vangeli del "New romantic": "Avalon" (Roxy music), "True" (Spandau ballet), "Rio" (Duran duran), "The lexicon of love" (ABC). Probabilmente, anzi, sicuramente coloro che ispirarono di più il sound e sopratutto il look delle band Neoromantiche furono David Bowie, i Roxy music e, seppur in parte più piccola, Brian Eno. Resta però ancora da capire in cosa consista veramente il Neoromanticismo degli ottanta. Non si tratta di un sound specifico, anzi, è una miscela di più generi diversi, che hanno comunque come filo conduttore una melodia orecchiabile e "facile", attitudine punk-new wave, strumentazione elettronica in largo uso e ritmo ballabile. Sovrastando tutto questo, la vera rivoluzione del "New romantic" non sta nel suono, ma nell'aspetto visivo, esteriore. Una sorta di malcelato edonismo contraddistingue ogni brano Neoromantico rispettevole, e "The lexicon of love", se vogliamo, può essere considerato sul piano sentimentale un disco di sublimazione del concetto di sentimento, ma che al solo sentire tale parola non esita un secondo a dichiararsi fervente discepolo dell'eros più carnale e selvaggio, una sorta di eros Platonico in continuo cambiamento. Concludendo col "New romantic", esso è stato indiscutibilmente il vettore finale che ha portato il genere Pop nelle case degli abitanti della terra e ne ha definito gli standard, che ancora oggi perdurano, nonostante il Neoromanticismo sia ufficialmente deceduto alla fine del '85, perdendo il colore, la vivacità e la pomposità che lo distingueva, commercializzandosi senza tregua. Ad oggi, che siamo sommersi da canzonette stupide, piene di testi impegnati e ridicoli, un po' di sano e disinvolto romanticismo ci vorrebbe di nuovo. E ora a noi.
L'album parte con "Show me", con un intro orchestrale che anticipa un'esplosione di suoni pompati e più precisi di un chirurgo, che descrive in quattro minuti l'anatomia dell'intero album, ambizioso e quantopiù efficace nell'analisi del lessico dell'amore, il centro del pianeta "umanità" sul quale si poggia. E dopo un intro da brivido si parte ufficialmente con "Poison arrow", primo successo commerciale della band e a mio parere uno dei momenti migliori dell'album e del "new romantic", questa canzone è una vera e propria "freccia avvelenata", che graffia senza esitazione l'ego e lo spirito del finora innocente ascoltatore. Il ritmo si impenna con "Many happy returns", veloce e letale brano d'atmosfera sintetica che porta all'apice il lato estetico dell'album, che assume forme sensuali e definite come non mai, tutte in realtà frutto di immaginazione di facciata. "Tears are not enough" è letteralmente e concettualmente l'immediata prosecuzione del brano precedente e ne riporta all'interno la stessa atmosfera uggiosa e lo stesso ritmo incalzante, ora ancora più forte e veloce. E' l'apice, la torre più alta dell'album. Infatti con la prossima canzone, "Valentine's day", i ritmi si mantengono veloci ma il pathos cala, mantenendo ciononostante parte dell'atmosfera di "Many happy returns" e parte di un'altra, che anticipa quella eternamente presente nel prossimo brano, erroneamente scelto da molti come il simbolo della musica degli ABC e inspiegabilmente quello di maggiore successo. Sto parlando di "The look of love", con correlato il plasticosissimo e coloratissimo video. L'unica cosa che dico al riguardo è che "The look of love" in più punti suona falso e ruffiano, ma ammetto che commercialmente parlando è stato uno dei punti più forti dell'album. E con ciò, dopo sei brani fondamentali che sono passati più veloci di un treno, si conclude il primo atto e l'anima vera di "The lexicon of love".
Il resto è il contorno e il dolce. Si passa per "Date stamp", veloce passaggio dark della band (comunque ottimo), il sentimento puro di "All of my heart", che preannuncia un cambio di direzione, un secondo attimo dark e molto d'atmosfera come "4ever 2gether", un inutile "The look of love" part 4 (chissà dove sono finite le "part 2" e "part 3"?) e la conclusione che passa per il principio, "Theme from Mantrap", una versione lenta e in sei ottavi di "Poison arrow". Così passa "The lexicon of love", un'eccellente prova di competenze che ha messo alla prova artisti e pubblico conducendo un viaggio per certi versi controcorrente verso la definizione più pulita e fedele di "AMORE", risultando promotrice di quell'amore cavalleresco e nobile oggi tanto deriso e sempre più obiettivo di satira. Si capisce molto anche guardando la stessa copertina del CD (all'epoca LP).
In conclusione "The lexicon of love" è un colpo basso all'eccessivo materialismo ed impegno politico presente nella musica odierna, un'opera completa e di classe, che non può assolutamente mancare nella collezione di un musicofilo che si ritiene tale.
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