Ricordati
Di santificare gli errori
Che sono la sola maniera
Di tirarsi fuori


(da “I Nostri Temporali”)

In provincia si fa dell’ottimo shoegaze. Nelle sale prove vicino ai centri commerciali non mancano gli eredi di Neil Halstead e soci, che, Rickenbacker alla mano e una valanga di pensieri contraddittori nella testa, danno vita a muri di suono dolci e distorti, cantano – o Musa – l’ira della gioventù acerba in cerca di riscatto e fortuna, lontano dalla vita vuota di periferia.

I grossetani Abiku s’incastrano perfettamente in questa alchimia. Sconosciuti, per fortuna loro, al mercato delle grandi etichette, nel 2011 hanno autoprodotto il loro primo album, "Technicolor", dopo un paio di EP – "Deriva" e "999" – assai promettenti, scaricabile gratuitamente su Bandcamp. Nel far ciò, bisogna ammetterlo, si sono allineati a quello che sarà (anzi, è già) lo standard della produzione musicale del futuro, soprattutto per le band emergenti (anche se gli aficionados possono comunque avere su ordinazione il formato fisico di "Technicolor": un compact disc che si finge vinile, ma che vinile non è, e che tradisce il gusto spiccato per il vintage della band di Grosseto).

Volendo e dovendo essere semplicisti, si potrebbe dire che gli Abiku (voce e chitarra: Giacomo Amaddii Barbagli; basso: Virna Angelini; tastiere: Edoardo Lenzi) hanno pescato a piene mani non solo dalla dimensione shoegaze di Slowdive e My Bloody Valentine, probabilmente – azzardiamo noi – tra i maggiori ispiratori delle loro sonorità, ma anche dalle atmosfere decadenti di Cure e Joy Division, senza tralasciare le sporadiche, ma comunque pronunciate, incursioni nel campo del dream pop più recente (vogliamo dire Radio Dept. o Edwood? Diciamolo). Non è un caso che tanti e tali siano i maestri di questi ragazzi, i quali, pur giovanissimi, possiedono un notevole ed eterogeneo background musicale: ciascun membro del gruppo, come dichiarato dallo stesso Barbagli in più di un’occasione, ha una formazione che lo contraddistingue, una personalità forte che dà il proprio contributo all’economia dei dodici pezzi che compongono Technicolor.

Parliamo ora delle tematiche di questo disco. "Technicolor" “denuncia” le difficoltà esistenziali dei giovanotti incastrati nella noia di periferia («Pochi anni ancora e ce ne andremo via di qui / La storia degli eterni provinciali», dalla quarta e omonima traccia dell’album); giovanotti che sognano di uscir fuori dal nido, ma che allo stesso tempo non vogliono staccarsi dal ricordo delle passeggiate sulla spiaggia, le serate con gli amici, il mare indorato dal crepuscolo di luglio, Tennent’s alla mano e Wayfarer tra i capelli. «Estati in technicolor» che incorniciano i momenti più belli vissuti nella cittadina di provincia, lontano dalla grande scena musicale o da chissà quale sogno di gloria poetica. Il tutto, in perfetto stile dream, impreziosito da riverberi già sentiti nei grandi classici dello shoegaze anni ’80, tastiere che dicono la loro in più di un’occasione (Kittinger (Canzone Sugli Aeroplani), uno dei pezzi più riusciti e coinvolgenti) e linee di basso molto decise. Nota di merito anche per il batterista, Stefano Campagna, dal tocco particolarmente raffinato.

Tra il sogno e il ricordo c’è spazio anche per l’amore, che si concretizza nell’immagine delle «Ragazze disegnate sui muri / Il rosa pallido dei vestiti a fiori» (Saint Etienne, terza traccia), tanto retrò quanto utopistiche, eteree come i desideri di fuga e il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Un passaggio impercettibile nella sua fulmineità. E proprio «Quando l’estate sembra non finire mai le piogge arrivano» (I Nostri Temporali), canta Giacomo, raccontando forse il momento di trasformazione del giovanotto ormai post-liceale, incollato alla finestra, «Le prime gocce sul cornicione», a contemplare le implosioni dell’autunno, mentre fa il computo dei suoi primi, irripetibili sbagli.

"Technicolor" è un discreto saggio di cultura pop adolescenziale contemporanea, in cui emerge la vena letteraria di Barbagli in mezzo a tanti «muri di rumore» (come egli stesso dice in Canzone Stilnovista), del quale si consiglia l’ascolto tra i sedici e i diciassette, magari dopo aver fumato un torch al chiar di luna. Superati i vent’anni, tuttavia, potrebbe cominciare a stonare un po’.

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