Questa è la storia di una band relegata nel suo paesino nel sud della Louisiana, lontano da New Orleans e lontana dal resto del mondo, è una storia di buoni musicisti, di ottima musica e di tanto male esistenziale. Nessuno sembra ricordarsi di questo complesso, creatura del singer Dax Riggs, a parer mio uno dei più eclettici e validi della scena Punk/Metal. Nato come band Death/Grind, riuscì in seguito ad una sgradevole ed impegnativa gavetta a guadagnarsi un posticino a livello locale: dopo aver evoluto il suo sound estendendolo in diverse direzioni, ottenne un sudato contratto con la californiana etichetta Rotten Sounds, che tuttavia non gli valse il successo che merita. Dopo alcuni lavori, il primo dei quali uscito nel 1991, il gruppo dà alle stampe  “When The Kyte String pops”: è il 1994.

Parlare di influenze recensendo un complesso tanto personale è non solo un azzardo, ma anche un insulto a gente che aveva veramente molte idee e cose da dire: tuttavia non si può fare a meno di notare alcune analogie coi conterranei Eyehategod e in generale con tutto lo Sludge ed il Post Hardcore; nonostante ciò i nostri hanno evoluto uno stile molto originale, lontano anni luce da qualsiasi etichetta. Ogni pezzo è un miscuglio di vari generi tra i quali magari spicca di più uno rispetto ad altri (sia esso il Grind o l’Hardcore); insomma, sulla carta dovrebbero rimanere soddisfatti un po’ tutti, ma nella cruda realtà gli Acid Bath restano degli illustri sconosciuti.

La base Grind si nota soprattutto a livello tecnico: i membri sono infatti dotati di una preparazione molto buona, raramente riscontrabile nei gruppi Sludge. La difficoltà di alcuni passaggi li avvicina, anzi, addirittura ai virtuosismi di alcune band Death Metal anche se il tipo di musica suonata ne resta molto distante (eccezion fatta per alcuni passaggi in cui si fanno sentire le “origini”). La sezione ritmica, in particolare, adotta soluzioni veramente molto difficili: i tecnicismi passano spesso in silenzio, senza stupire esageratamente, ma un orecchio attento potrà coglierne a bizzeffe. I tempi sono veramente molto vari, così come è vario il genere proposto: nei pezzi più tranquilli, il drumming è dolce, quasi cullante, ma nel pezzo più duro può diventare la peggiore sfuriata di un gruppo Grind: si alternano insomma parti levigate e lisce a massacri sonori veri e propri. Non mancano momenti più vicini al Doom (molto lenti e cadenzati) di matrice Crowbar né pezzi molto melodici che ricordano i Neurosis. Già da qui dovreste capire cosa sono capaci di fare questi ragazzi, ovvero di usare i loro strumenti a loro piacimento senza fossilizzarsi solo in un genere.

Le partiture per chitarre seguono la linea descritta sopra: una varietà imbarazzante. Da arpeggi psichedelici, si passa a chitarre gemelle classicamente Death Metal per poi sfociare nelle aperture ruvide tipiche del Post Hardcore. Il basso tiene testa agli altri strumentisti anche se è forse lo strumento in cui più si sente l’influenza Metal. Riservio al cantante una nota di merito a parte dagli altri: quest’uomo riesce a destreggiarsi tra screaming, parti pulite e growling senza fare una piega e la sua voce si adatta meravigliosamente a cantare qualsiasi genere. E’ calda nei pezzi più ricchi di melodia, malata nelle canzoni più angoscianti, corrosiva quando è ora di abbandonarsi alla rabbia ed alla disperazione: una versatilità veramente infrequente. La produzione non è forse pronta a seguire tutti i cambiamenti di rotta delle varie composizioni, così quelle che ne escono privilegiate sono le più violente, mentre le altre potrebbero essere rese meglio.
Capite quindi che dare una definizione di questa musica non solo riesce molto difficile, ma che ,per rendere le idee chiare, rischio di “inscatolare” in una kantiana “forma pura a priori” questo gruppo, deformando ciò che intende essere e ciò che di fatto è. Tuttavia gli Acid Bath non sono solo dotati di un grande gusto musicale che li conduce alla ricerca ed alla sperimentazione (come i Naked City, per dire), ma riescono anche ad essere estremamente comunicativi: a tal proposito vi invito a dare una lettura ai loro deliranti testi, intimi e di una decadenza e di una disperazione tale da suscitare vere, agghiaccianti emozioni. Anche il mood, dunque, si  dimostra eterogeneo e forse per questo più adatto a descrivere l’animo umano: tutti i sentimenti scorrono via con le canzoni, legati solo dal sottile filo del pessimismo più totale e nichilista. La confusione mentale si quieta nella contemplazione di un mondo in rovina, dal quale è bene mantenersi distante e nel quale sono racchiuse solo deludenti realtà. In verità, la delicatezza di alcune canzoni, l’immediatezza di altre quasi Southern Rock, e l’esasperazione di altre ancora, mi impediscono di considerare oggettiva la descrizione del mood di questo Lp. Ciò che è certo è che non è nelle intenzione dei nostri dipingere atmosfere rilassate: anche nelle song melodiche, una certa vena di malinconia e uno stato mentale costantemente vaneggiante rovinano quel che poteva essere salvabile.    

“When The Kyte String Pops” è un disco che cambia ad ogni ascolto e che, come i liquidi, non si può stringere in mano: una proposta tanto stravagante e composita riesce paradossalmente a seguire una stessa strada non tanto per il modo di suonare, che è messo al servizio del loro estro, quanto per i sentimenti che riescono a generare. Il gruppo pare definitivamente sciolto in seguito alla morte del bassista in un incidente, ma quello che hanno fatto in passato merita attenzioni: non è una semplice enciclopedia di generi musicali, è molto più.

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