Al diavolo il Cristianesimo e la sua dottrina. Al diavolo la sua fronte impassibile, le sue palpebre chiuse, il suo volto severo incipriato di piombo. Al diavolo per tutte le ragioni possibili. Per la separazione rigorosa tra il Cielo e la Terra, per i suoi miti fiacchi e decomposti, per i suoi divieti puerili e vigliacchi.
Ficcati fino al collo nel delirio della Creazione e prodotti di quel Soffio che dal Caos primigenio ha plasmato e stabilito le Energie gli esseri umani hanno bisogno di altro.
Ci vogliono tradizioni per cui il Cielo non sia più un mito, ma semplicemente un altro piano di realtà che comunica incessantemente con la Terra; ci vogliono riti che tendano le corde del corpo fino all'estremo limite di una spiritualità violenta; ci vuole la Conoscenza e i veicoli per ottenerla, officianti dalla volontà implacabile e templi dall'architettura oscena.
Molti, moltissimi, incalcolabili sono i rituali celebrati dal sacerdozio strafatto di Kawabata nel Tempio delle Madri Acide e anche se alcuni tendono ad una sterile idolatria di effigi ormai svuotate di senso, bisogna riconoscere che quando il nostro centra la giusta miscela di LSD e allucinogeni assortiti beh... Il risultato ha un che dell'energia brada, orgiastica, genesiaca, rabdomantica di una cerimonia pagana.
"La Nòvia" è un unico pezzo di quaranta minuti. Una cavalcata corrosiva, stordente, distorsiva e sfrigolante di (iper)acid-(ultra)psych-rock che ricerca senza sosta squarci oltremondani attraverso colate laviche densissime e stratificate.
Kawabata officia da par suo: spasmi elettrici di un chitarrismo dionisiaco che si avvitano e si raggrumano sulla ritmica come l'oro fuso che incrostava i colonnati dei templi persiani; progressioni incalzanti, loops mediorientali e sbafi dissonanti che saturano l'aria con umori acri, carnali e spermatici come le aspersioni d'incenso concentrato e le annesse orgie rituali del culto del dio Sole nell'antica Emesa.
E poi quel riff sistematico che scava, scortica e rigira tutta la profondità del sound fino al più piccolo dettaglio. Un riff sbavato, rallentato, vomitato, variato, estremizzato; un riff quasi da epopea Western a cui ogni isterismo elettronico, incedere di tabla, voce alienata o linea di flauto risponde con la precisione occulta delle viscere d'avvoltoio interrogate dai Sacrificatori Sacri.
C'è una specie di carnalità celeste e una specie di astrazione fisica: un immolare il proprio corpo per fini metafisici come gli eunuchi che gettavano nel Braciere Rituale il loro cazzo amputato di fresco e una ricerca spasmodica di dare una forma compiuta a idee smozzicate, tormentose e ossessive come il blaterare convulso degli Oracoli intossicati dall'oppio e dal culto.
"La Nòvia" è un rito pagano che stritolando la Materia cerca di entrare in contatto con gli dèi, un disco torbido e limaccioso come il sangue mestruale che le Vestali della Fenicia bevevano secondo il rito della Luna.
Incalzante come la prima metà di "Phallus Dei" e debordante come "Yeti" tutto (intendo le title-tracks) è il miglior disco dei Düül non composto dai Düül.
E arrivati al glissando acustico degli ultimi minuti ci si sente finalmente svuotati. Svuotati dal non-necessario, dalla sporcizia, dalla malattia. Svuotati come un ascesso a cui abbiano spremuto il pus.
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