Poco più di due decadi fa usciva un album neoprogressive destinato a diventare un classico: Hybris. La mente musicale del preparatissimo gruppo svedese Änglagård offriva una musica in buona dose retrospettiva per strumentazione vintage e concetti base, unita ad una tecnica (e soprattutto un tatto, direi io) sopraffina e le atmosfere nordiche a rendere l'offerta di Hybris unica. Poco dopo usciva l'album Epilog, col quale il gruppo si poneva di concludere la breve carriera (salvo poi essere rivalutati come uno dei gruppi più importanti del prog-revival degli anni novanta). Eliminata la voce, rimaneva una musica dalle tessiture sonore elaborate e variegate, molto organica e ispirata, che riusciva a concludere degnamente il capitolo Änglagård (escludendo un live chiamato Buried Alive che uscì nel '95 e segnò veramente la fine del gruppo).
Credo fosse la fine del 2010 quando mi capitò di leggere con grande stupore la notizia appena annunciata dal batterista Mattias Olsson riguardante l'imminente uscita di un nuovo full-lenght al quale il gruppo, riformatosi da poco (non per la prima volta, in realtà, giacché già nei primi anni del 2000 si erano esibiti in qualche data live presentando anche un paio di pezzi nuovi) e alle prese con le registrazioni. Da quel momento seguii con costanza l'evoluzione del nuovo album di quel gruppo che ritenevo fondamentale e che mai mi sarei aspettato di veder tornare in carreggiata, grazie anche ai video report dallo studio postati regolarmente dal batterista. Quando, nel 2012, "Viljans Öga" (questo il nome dell'album) uscì, non mancai di divorarlo subito. Vediamo insieme cosa scrissi al tempo mentre lo ascoltavo (se non amate le analisi vi consiglio di andare al dunque col finale).
L'album, composto da solamente 4 tracce di durata piuttosto elevata, inizia con Ur Vilande: il primo brano apre l’album con atmosfere che riprendono perfettamente il percorso dove era stato purtroppo chiuso quasi vent’anni prima col meraviglioso Epilog. Una dolce melodia flautistica accompagnata da chitarre acustiche, un singolare sound di basso e una buona dose di tastiere leggendarie, seguita da una sezione acustica che sfocia ben presto in una tipica sezione potente, caratterizzata da basso distorto, toni inquietanti e tanto mellotron o organo hammond, a seconda dei casi. L’unica vera differenza rispetto ad Epilog e Hybris sembrerebbe essere, a parte la qualità di produzione, la massiccia presenza del flauto di Anna Holmgren, più attiva che mai. Tra una sezione e l’altra, sempre tra atmosfere ora armoniose ora sinistre o scontrose, i primi 8 minuti del brano passano in brevissimo tempo. Tocca poi ad una sezione molto interessante dal punto di vista ritmico, con un Mattias Olsson in forma smagliante e arrangiamenti sempre perfetti e coronati da una scelta di sonorità vintage assolutamente irresistibile. Inserita una nuova cellula ritmica semplice ma d’effetto le variazioni intervallate a sezioni inedite si susseguono in un tripudio strumentale che lascia senza fiato. Al minuto 10 i toni si affievoliscono improvvisamente, lasciando un suono esotico del tutto inusuale a regnare per qualche secondo, prima di ripartire con una tipica galoppata mellotronica con il basso inconfondibilmente di Johan Brand in costante evidenza nel mix. Da non dimenticare anche la chitarra che non si lascia sfuggire anche in questi ultimi la possibilità di esibirsi in contorte sezioni solistiche mai eccessive e sempre molto poco rassicuranti a livello atmosferico. Con un’ultima sezione che riprende una delle principali frasi della seconda parte del brano il brano inizia a sfumare lasciando qualche lieve arco di mellotron e delle chitarre acustiche, poi accompagnate dal solo piano e qualche accenno di basso per chiudere il brano. A questo punto, sul risuonare dell’ultima nota di chitarra, una cosa è chiara: gli Änglagård sono finalmente tornati e non vediamo l’ora di continuare l’ascolto di questo Viljans Öga!
Tocca poi a Sorgmantel. Sono ancora una volta le delicate melodie della Holmgren ad aprire questo pezzo, accompagnate poi dal clarinetto e il piano, per una sezione di cameristica memoria molto interessante, a cui si aggiungono gradualmente chitarre acustiche, mellotron, violoncello e via dicendo. In questo modo entro un paio di minuti ci si ritrova in atmosfere assai diverse, addirittura inusuali per gli stessi Änglagård, vista la presenza di un lead sound di sintetizzatore a coronare una sezione prevalentemente bassistica. Ciò che segue è di interesse non minore, con varie trovate ritmiche interessanti e un bel lavoro di tutti i musicisti. Degno di nota è anche l’assolo chitarristico poco prima del quarto minuto e l’originale arrangiamento di ciò che segue, con delle mellotron strings eccitanti e un bell’assolo di flauto. Ma sarebbe inutile dilungarsi a descrivere ogni singola perla strumentale presente in 12 minuti di brano di questo genere. Notevole come sempre è la capacità di passare da convincenti sezioni cameristiche o di atmosfera sia tesa che rilassante ma comunque cauta ad altrettanto convincenti sezioni selvagge e inquietanti, impetuose, tecnicamente impressionanti e quant’altro senza alcun problema e senza spezzare il fluire del pezzo. Dopo una serie impressionante di situazioni di varietà notevole intorno al decimo minuto i toni si affievoliscono per tornare ad un arrangiamento precedente, con chitarre pulite e flauto in primo piano, l’onnipresente basso trasformato in un accompagnamento perfetto e un immancabile schizzo di mellotron qua e la a colmare il tutto. Proprio il mellotron all’undicesimo minuto decide di rimandare il finale con un ponte molto carino a base di una certa quantità di propri registri messi in bella mostra, prima di lasciare l’ultima parola ancora una volta alla chitarra.
Con la seguente Snårdom si raggiungono i picchi del disco. Questo brano (il più lungo dell'opera) si apre invece col botto, con un tripudio di strumenti che fanno a gara a chi debba farsi udire maggiormente su riff folli e un lavoro ritmico magistrale. Ancora una volta compare un sintetizzatore, strumento che fino a questo album avevamo sentito poco o niente, e sul movimentato comparto ritmico prendono il loro posto assoli di tutti i tipi. Quando i toni si smorzano è il flauto a fare da padrone per un attimo, finché non riparte qualcosa di molto simile all’incipit del brano, rivisitato in alcune parti in versione veramente sinistra. Neanche quando il basso si fa da parte e la batteria si tranquillizza i toni si smorzano veramente, lasciando in primo piano oscure sonorità in cui nemmeno il dolce lavoro melodico del flauto riesce a sembrare rassicurante, passando poi per una sezione batteristica da paura. Quando il basso torna in attività dà prova della sua impressionante abilità volteggiando in tutti i modi sopra all’impegnata batteria di Olsson. Tra un breakdown e l’altro si arriva a metà del brano con un assolo di chitarra elettrica piuttosto malinconico accompagnato poi da un flauto con funzione armonica, che si occuperà invece nella successiva sezione di prendere il posto della chitarra. Il tutto sfocia nell’acustico, tra sognanti (ma stavolta tendenti al malinconico) flauti e chitarre in atmosfere delicate in diretta dalle foreste svedesi, come da tradizione. Presto anche il piano fa la sua comparsa poco prima di tramutarsi in organo: in questa calda sezione gli accordi di organo sono scanditi da una batteria quasi funebre e poi accompagnati da arpeggi di chitarra e giri di basso, in un crescendo di assoluta meraviglia. Poi, bene o male, si ritorna senza quasi nemmeno accorgersene in ritmi più serrati e arrangiamenti meno essenziali. Un assolo di chitarra porta il brano alla sua coda e infine, su magistrali accompagnamenti di mellotron ad epicizzare il tutto (senza dimenticare una conclusione appena accennata fatta di spunti elettronci), a chiudere questi sedici minuti ricchi di musica notevole.
Il brano conclusivo è l'inizialmente intima e infine folle Längtans Klocka, che riprende senza interruzioni le sonorità atmosferiche lasciate in sospeso dal pezzo precedente. Questo pezzo inizia ad evolversi con un grande pathos, grazie ad una sezione pianistica iniziale minimalista ma molto coinvolgente. Il flauto lo raggiunge ben presto e mentre l’accompagnamento pianistico si fa via via più pieno questo va delineando melodie di grande spessore emotivo. Tutto viene lasciato in sospeso su un ultimo accordo di tensione, prima che un accompagnamento chitarristico sostituisca il piano e inizi a ricondurre verso sonorità più tipiche del gruppo, con qualche comparsa di mellotron e un bell’intreccio di chitarra e flauto. Al quarto minuto il brano riparte col botto, una sezione ritmica più concitata dona nuova vita all’azione e la complessa ed accesa sezione che accompagna il destreggiante flauto sorprende ancora una volta. Improvvisamente solo il piano rimane, ed è solo l’inizio di una interessantissima sezione di variazioni di ogni tipo, sonorità inusuali, inaspettate pause e dinamiche di tutti i tipi. Una più tipica sezione incalzante segue, con un impetuoso unisono protratto da flauto e chitarra. I toni puntano poi nuovamente all’affievolimento con anche una breve comparsa sassofonistica, prima di tornare al discorso lasciato in sospeso poco prima. Mentre rimane solo qualche strana sonorità solistica inizia ad udirsi in sottofondo qualche decadente atmosfera circense filtrata e portata alla follia con qualche manipolazione di intonazione. La sequenza malsana riporta un po’ ad Ifrån Klarhet Till Klarhet dal primo album, Hybris, ma in questo caso il tutto è portato all’esasperazione, è molto più longevo e solenne, per poi sfociare in pura follia al limite del rumorismo. Anche quando le sonorità tipiche del gruppo riescono ad emergere si mantengono sane per breve tempo, poiché il finale stesso del disco non è stavolta caratterizzato da una cadenza solenne e potente ma da un disfarsi della tessitura sonora in una serie di suoni quasi tra loro scollegati e di malsano umore. Inaspettato questo finale, che vista anche la massa che occupa sulla durata dell'intero pezzo può risultare decisivo sul giudizio dello stesso: se l'outro piace, questo brano alle vette, altrimenti viene relegato al ruolo di brano tutto sommato meno stupefacente dell’intero album.
Ed ecco dunque il grande ritorno di un gruppo creduto defunto per quasi 20 anni, che paradossalmente dopo il proprio un album chiamato “Epilog” torna in scena e riesce ancora a sorprendere (anche live, tra parentesi, e avendoli visti a Loreley posso assicurarvi che sono una cosa veramente allucinante, uno dei migliori gruppi che abbia mai visto live): la creatività è ancora alle stelle e la sua tendenza ad un grande tecnicismo intelligente, senza mai sfociare nell’eccesso, è parte integrante anche di questo album, in questo caso ancora una volta completamente strumentale e composto da sole quattro tracce di durata compresa tra i 12 e i 16 minuti ciascuna. Ancora più presenti che nei precedenti album sono i fiati della Holmgren, il basso di Brand non si smentisce, confermandosi prorompente nelle sezioni più concitate e indispensabile a creare il sound tipico del gruppo, parte del quale è anche la massiccia presenza di mellotron, su tutte le tastiere, e anche questo non manca. Anche Olsson dà grandiose prove della propria abilità alle percussioni, se possibile ancora superiore rispetto ai precedenti album e una maggiore presenza di sezioni acustiche da anche alle chitarre la possibilità di esprimersi in molti modi diversi e sempre convincenti e ben suonate. In conclusione si tratta sicuramente di uno dei migliori album del 2012, un ritorno che aspettavamo da molto, troppo tempo e che, fortunatamente, difficilmente potrà deludere i fan del gruppo svedese, andando non ad infrangerne lo spessore ma a renderlo anzi ancora più consistente.
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