“Tramontata è la luna;

tramontate sono le Plèiadi;

è mezzanotte; l’ora passa;

e io sono qui, sola.”

(Saffo)

I Therion dovrebbero cominciare ad impallidire di fronte alle nuove leve e da esse imparare, anziché continuare a sfornare album aridi e manieristici considerandosi i Re Mida di un certo tipo di metal dalle velleitarie connotazioni intellettualistiche. Valga un esempio su tutti: la band che è stata scelta per aprire le date del loro prossimo tour autunnale supera di gran lunga le aspettative generali.

Loro si chiamano Aesma Daeva (come l’antico demone del dell’ira e della vendetta nella mitologia persiana), vengono dal Minnesota e nascono come progetto symphonic metal per opera del mastermind John Prassas che, dal penultimo disco “The new Athens ethos” (registrato nel 2003 con Melissa Ferlaak, attuale frontwoman dei Visions Of Atlantis), mira a rileggere i fasti ed il retaggio culturale dell’età ellenica, non buttandosi a capofitto nella ripresa di temi folcloristici (come hanno fatto ad esempio alcuni act neofolk quali Daemonia Nymphe o Ataraxia) bensì sviluppando al meglio la lezione di Christofer Johnsson e compagni con un modus operandi insolitamente immune da qualsiasi aridità stilistica e compositiva.

“Dawn of the new Athens”, registrato da Neil Kernon (Nevermore, Queensryche) è la loro terza release e, ad onor del vero, è anche la prima dotata del potenziale adatto a suscitare un po’ d’interesse tra i cultori del metal operistico. Se fino all’uscita di “The eros of frigid beauty” (2002) gli Aesma Daeva sembravano irrimediabilmente insabbiati all’interno di partiture spiraliformi ed estremamente difficili da seguire, oggi il tiro è stato corretto a favore di un songwriting più organico ma allo stesso tempo pregiato da una grandeur fuori dal comune che della componente classica esalta la celestiale magniloquenza, vuoi per la presenza della straordinaria Lori Lewis dietro al microfono (colei che canterà per gli stessi Therion per l’intero tour), vuoi per quella dei numerosi musicisti di estrazione classica coinvolti nella registrazione dei brani. Sebbene tutte le composizioni siano state adattate ad una voce cristallina ed estremamente alta come quella della Lewis, la componente metal non passa mai in secondo piano, anzi, per la maggiore sono i passaggi sinfonici a diventare semplice sponda o ornamento. Le chitarre si destreggiano con disinvoltura e disarmante spontaneità, senza mai perdere il filo conduttore, tra passaggi al limite del thrash, riff lenti e strazianti in stile gothic-doom, improvvise accelerazioni e rallentamenti atmosferici d’ispirazione progressive.

L’atmosfera sacrale dei cori femminili che fanno da preludio all’intera opera (“Tisza’s child”) ci immerge in una cultura lontana millenni che ha saputo trascendere le barriere del tempo ed evitarne l’oblio, saziando tutt’ora gli amanti di poesia, grazie ai suoi numerosi capolavori, ma anche grazie all’operato di questi bravi e arguti musicisti che ne vogliono far rivivere lo splendore. E non sarà certo un peccato se la successiva “The bluish shade” (impreziosita da uno scheletro pianistico, da un ponte rallentato all’inverosimile e da un refrain dalle tonalità celesti incastonate nei gorgheggi della bravissima cantante) sembrerà vagamente rientrare negli schemi dei Nightwish di “Once”, perché un po’ di riff rocciosi e batterie martellanti non stonano certo in simili contesti, e nemmeno l’adagiarsi su un liquido giro di basso del mid-tempo “Artemis” riuscirà a rompere la magia delle tracce precedenti. Gli assoli e i cambi di tempo di “Hymn to the sun” fanno trapelare anche qualche spiraglio di luce all’interno di questo santuario sonoro, affidando gli ultimi istanti di vita del brano ad un crepuscolare giro di pianoforte, che entrerà ben presto in contrasto con la magniloquenza di “D’Oreste” (chissà se il brano si rifà all’omonima tragedia di Vittorio Alfieri), una vera e propria composizione metal per voce soprano, degna dei più famosi capolavori lirici, che da sola vale l’assoluta fiducia in questa band. Tra le strutture power di “Ancient verses” si insinuano, alternandosi piacevolmente, arzigogolate incursioni d’archi e fiati, accompagnando le severe ritmiche di Prassas e in un’epica cavalcata, le cui redini sono come sempre in mano alla nostra Lori, mentre “Since the machine” si candida a diventare miglior brano del disco, grazie alla sua una vigorosa ritmica dalla precisione chirurgica e dall’impatto tipicamente thrash ed alla varietà di registri vocali utilizzati (compaiono anche cori e vocals maschili).

Quasi un’ora è passata, e le danze si chiudono con "The loon" l’episodio più cadenzato del lotto, colto da un’improvvisa influenza doom nelle chitarre, e magnificato dalla costante presenza di entrambe le componenti (metal ed orchestrale) del sound degli Aesma Daeva, lasciandoci senza parole di fronte ad un brano, ma anche ad un intero disco, che sembra il lamento di un’anima lontana, carico di ancestrale malinconia ed eterne pene d’amore, straziante per il cuore ma meraviglioso all’udito. Come le colonne del tempio che misteriosamente emergono dai verdi e pacati fondali dell’artwork, i nostri si stagliano brillantemente al di sopra di tutti quei symphonic-metal wannabes che ultimamente invadono il mercato con la pretesa di tirare in ballo la musica classica per i propri sporchi comodi. Gli Aesma Daeva non hanno neanche la pretesa di essere dei grandi, lo sono semplicemente…

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