Dunque, ci sono uno svizzero, un inglese e un americano che…no, non è l’inizio di una barzelletta: vi voglio semmai parlare di “Betimes Black Cloudmasses”, secondo album del progetto “transnazionale” Aethenor, opera realizzata fra Londra, Ginevra ed Oslo, e data alle stampe nell’anno 2008.

Lo svizzero è un certo Vincent De Roguin (già militante negli - a me sconosciuti  - Shora); l’inglese è invece Daniel O’ Sullivan (Guapo, in seguito stretto collaboratore dei più noti Ulver), mentre l’americano è niente meno che sua maestà stregonesca Stephen O’ Malley, che certo non ha bisogno di presentazioni. Il terzetto, coadiuvato dai due batteristi Alexander Bable e Nicolas Field, mette sul piatto un intelligente mix di dark-ambient e free-jazz nel quale l’improvvisazione pare avere la meglio lungo l'intero svolgimento dell’opera. Che si tratti di roba oscura è indubbio; di droni, nonostante la presenza di O’Malley, non ve ne sono molti, o per lo meno non hanno un ruolo preponderante, considerato che la chitarra stessa viene qui lasciata spesso in secondo/terzo piano, o relegata ai ricami, o sullo sfondo in veste di spennellatrice di fuligginosi soundscape. A prevalere sono piuttosto le cupe evoluzioni, le derive cosmiche (molto à la Tangerine Dream – insieme ai Pink Floyd di “A Saucerful of Secrets” il termine di confronto che per primo viene in mente), gli intrecci sinistri di un maelstrom tastieristico affidato interamente alle intuizioni di O’ Sullivan e De Roguin. In tutto questo, le percussioni (mai lineari, che siano singoli accenni, tocchi isolati nel silenzio o improvvise, devastanti scariche epilettiche) hanno un ruolo fondamentale nella riuscita finale del prodotto, anche perché è del loro infernale turbinio che si compongono i caotici crescendo che irrompono fra una fase (più o meno lunga) di meditazione e l’altra. 

C’è poi anche il norvegese, e che norvegese: quale very very special guest troviamo nella line-up niente meno che l’ugola spettrale di Krystoffer Rygg, voce/guida degli Ulver (è da queste sessioni che nascerà il sodalizio fra il polistrumentista extraordinaire O’ Sullivan e la band del cantante). Sebbene non vi sia lascito su questa terra che non brilli laddove Rygg abbia messo bocca, in questa circostanza i suoi rantoli e i suoi borbottii (scarabocchi catacombali squisitamente resi in forma free-style) impigliati qua e là nelle tessiture irrequiete di una musica sostanzialmente strumentale, influiscono davvero poco sugli esiti complessivi dell’operazione.

Operazione che centra perfettamente il bersaglio, se l’obiettivo era quello di delineare scenari destabilizzanti che generassero incertezza e sensazioni di ansietà nell’ascoltatore. Tanto cerebrali da stuzzicarne anche il cervello (dell’ascoltatore). Tre lunghi brani (per un totale di trentaquattro minuti) che sono in verità un unico viaggio di disperazione attraverso territori che sono fatti della materia stessa della mente e dell’Inconscio: fra avanguardia del Terrore ed inquieto esoterismo (un bosco tetro visitato nel cuore della notte, incespicando nel buio, inciampando su rami secchi, franando giù per i declivi scoscesi, circondati ed inseguiti da oscure Presenze e forze misteriose), i momenti migliori rimangono senz’altro il procedere mesto e minaccioso delle orchestrazioni nell’incipit di “I”; i carillon malati lasciati vegetare dopo le deflagrazioni percussive di “II”; i desolanti tasti d’avorio rinvenuti nel niente del nulla dopo l’esaurirsi lento e strisciante delle distorsioni chitarristiche di “III”.

Incapperanno in un bel tranello, tuttavia, gli amanti del black-metal o del doom dronato di marca Sunn O))); a dire il vero qui non solo non si parla il linguaggio del metal, ma nemmeno quello del rock, nonostante il coinvolgimento di certi personaggi possa far pensare a qualche strano prototipo di metal sperimentale; di certo si troveranno a loro agio tutti coloro che amano indugiare su atmosfere macabre e tendenti continuamente al Trascendentale. Chissà, forse anche i cultori dell’avanguardia tout court potrebbero gradire (laddove ovviamente vi sia una morbosa propensione a esplorare/sviscerare le pieghe vischiose della parte più oscura della musica). La portata evolutiva di “Betimes Black Cloudmasses”, tuttavia, risiede tutta entro lo steccato dell’Estremo (un ulteriore passo avanti rispetto alle basi gettate anni addietro da O’Malley con gli altri suoi progetti, ovviamente in direzione ostinata e contraria al metallo fumante dei suoi Sunn O))) e Khanate) e non, paradossalmente, nei salotti colti del free-jazz, a cui sicuramente il dischetto in questione, da un punto di vista strettamente stilistico, appartiene.

Da consumarsi preferibilmente in piccole dosi.

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