Gli After Crying sono una combinazione di musicisti/polistrumentisti magiari dai connotati prettamente classicheggianti con intuizioni jazzistiche, accenni cameristici, tastiere evocative e ritmiche perlopiù delicate ma sempre pronte a variare d'intensità. In tutto questo fanno capolino cori, voci spesso dal carattere recitativo, momenti rock scintillanti, archi e fiati elegiaci alternati a fraseggi virtuosi di crimsoniana memoria. L'opera si compone di due suite (prima e quarta traccia) più tre brevissimi e delicati intermezzi che vedono protagonisti archi e cori dalle sfumature nostalgiche ("A Kis Hos"), melodie dalle tinte dark ("Nocturn") e divagazioni per violoncello fagocitate da percussioni impetuose a cesellare il tutto ("Vegul"). Si parte con "A Gadaraj Megszallot" e siamo subito in territori contaminati da contrappunti di cello e piano disposti in tempi asincroni in un connubio cupo, intriso di malinconia. Il perentorio ingresso di una nota grave (minuto 4:29) scuote le membra e graffia nella sua nascosta e raggelante bellezza. Si va avanti con due linee melodiche asimmetriche che si allontanano tra loro come a descrivere equazioni ricurve per poi risolversi l'una nell'altra (5:04) implodendo in un basso poderoso a rimarcare quel senso di inquietudine e struggente solennità. Attraverso una fase centrale più meditativa archi e piano singhiozzano fino ad introdurre un cantato a cui adesso è affidata la conduzione del brano e su cui si adagiano i tasti d'avorio che paiono accarezzati più che percossi. Ma è solo equilibrio tra le parti che rimangono come sospese, senza ossigeno. Le soluzioni di cello si fanno via via più spigolose in un crescendo ritmico dove contrappunti di clarinetto, prima, e stille dissonanti di piano, poi, scardinano il tema iniziale fino ad una breve pausa (17:00). Poi è scorribanda sonora con schegge di trombe che lampeggiano vorticose sui flutti di un piano-free forsennato alternando momenti di "stop and go". Il mellotron lento ed inesorabile ci concede ancora una volta di sognare tra limpide punzonature di note sospese in un'atmosfera di palpabile abbandono. Alla fine è come scorgere la luce nascosta nel fondo di occhi ciechi. La title-track (quarta traccia) debutta con un fraseggio di cello che sembra contorcersi su se stesso fino a strozzarsi. Sono sempre gli archi a spadroneggiare insieme ad arrembanti incursioni pianistiche. Il clima si fa meno rovente ed un lavoro sui tamburi dal sapore tribale introduce un breve canto quasi sussurrato (5:50) a cullarci in un vuoto di forma circolare. Inserti di fiati colmano gli spazi tra i rintocchi di pianoforte che spiazza per la sua poderosa beltà....ed è armonia allo stato puro ad accompagnarci in un delirio fluido che sfiora l'anima. Questo piccolo gioiello di musica contemporanea dal titolo impronunciabile si pone come opera mai fine a se stessa. La mescolanza di stili fa da collante alle singole intuizioni spingendo ed ampliando la tensione emotiva... come una sorta di Karma liberatorio..... "dopo il pianto".
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