Gli Afterhours sono uno dei gruppi più amati/odiati della storia della musica italiana. Scrivere di loro è quasi un suicidio: immagino quanti potrebbero essere i commenti scritti solo per partito preso. In effetti la spocchia del cantante chitarrista Manuel Agnelli non è indifferente, ma come non lo è l'apporto che, con dischi come questo, sono riusciti a portare alla scena italiana. Il loro album precedente, "Germi", il primo in italiano e da molti considerato come il primo vero disco del gruppo milanese, presentava perlopiù delle tipiche sonorità grunge ispirate da quello anglofono. In "Hai Paura Del Buio", rimettono tutte le carte in tavola. Si liberano del ruolo di gruppo dal suono monolitico tendendo alla sperimentazione, spaziando tra i generi più disparati: dall'hardcore alle ballate acustiche, qualche spruzzo di grunge, si sfocia addirittura nel pop e tanta sperimentazione.
Se dovessi sintetizzare quest'album in una parola direi: distorto. Distorta è la voce di Manuel Agnelli nella traccia iniziale "1.9.9.6.", (super)distorte sono le chitarre del visionario Xabier Iriondo, la realtà espressa nei testi è distorta. Manuel Agnelli, in definitiva, fa uscire tutto il marcio dalla sua testa e lo mette sul banco, in vendita al grande pubblico. E questo piace, tanto da far coppiare gli Afterhours a fenomeno nazionale, quando sembrava che per loro non ci fossero più speranze nel panorama musicale italico.
La formazione milanese, che per questo disco si avvale per la prima volta della collaborazione di Dario Ciffo al violino (collaborazione che durerà più di 10 anni), presenta una track list che per gli appassionati è quasi un best-of, per tutti gli altri è comunque un disco da sogno, che presenta un numero di classiconi che tanti gruppi, nel corso della loro carriera, si sognano.
Il disco, dopo la breve title-track strumentale, si apre con 1.9.9.6. , ballata apparentemente ingenua in cui Manuel Agnelli gioca con la sua voce, trasformandola e rendendola libera di dire ciò che vuole: per ora è ancora l'unico disco che sento aprirsi con una bestemmia. Dopo questo coraggioso inizio siamo catapultati nella furia di "Male di Miele", canzone simbolo, che unisce rabbia, amore, dolore e uno dei più bei riff degli ultimi 20 anni.
Andando avanti si potrebbe continuare a parlare all'infinito, come non poter discutere della disturbante "Rapace", o della dolce "Elymania", della lisergica "Senza Finestra" o la disarmante (immaginatevi una sorta di ninna nanna infantile dopo 40 minuti di rumore!) "Come Vorrei".
Oppure potrei parlarvi delle mie preferite, dall'hardcore di "Dea" e "Lasciami Leccare l'Adrenalina", alle atmosfere punk e dissacranti di "Sui giovani d'oggi ci scatarro su", alla rabbia di "Veleno"; o, per farla bene, un po' di tutte le 18 canzoni presenti.
Oppure potrei dirvi di ascoltarlo, perchè certi capolavori non fa mai male ascoltarli, anche per chi li conosce già. Naturalmente, dopo tutta questa filippica sulla distorsione e sul rumore, vi aspettate certo qualcosa del genere. Invece no. Perchè? Perchè gli Afterhours riescono a fare bene anche il pop.
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