Lo so, è un lavoro sporco e ingrato, ma qualcuno deve pur farlo. Visto che a tutt'oggi (23 aprile 2012), ad una settimana dalla pubblicazione, nessuno ha ancora scritto nulla su questo nuovo album degli Afterhours, sento il dovere morale di assumermi questa responsabilità e andare incontro alla valanga di merda che mi pioverà addosso per essermi infilato nei meccanismi diabolici che si muovono da sempre intorno alla band più amata/odiata d'Italia.

So bene che passerò i prossimi giorni a leggere i vostri commenti esilaranti tra minacce di morte, accuse di ogni genere e magari anche qualche apprezzamento. Ed è per questo che io non vedo l'ora (come direbbe Pierpaolo Capovilla).

Cominciamo dal titolo: Padania. Francamente è un titolo di merda. Al di là di tutte le spiegazioni socio-politiche, filosofico-geografiche, antropologico-umanistiche, nonostante tutte le analisi, le motivazione sviscerate, comprese, condivise e riflettute...r imane un titolo di merda. Sarà per la fonetica della parola Padania, sarà per ciò che rappresenta per una persona mediamente intelligente e sviluppata ma sinceramente non può evocare proprio nulla di interessante o di stimolante. Credo con tutto il cuore che si potesse fare di meglio, girando intorno al concetto, ma utilizzando un termine diverso. Ad esempio, parafrasando se stessi, qualcosa tipo "Il paese irreale" sarebbe stato già meglio. In ogni caso si poteva fare di più.

Ma veniamo all'album: Bellissimo. Fortunatamente i motivi di disagio si fermano al titolo. L'album è un fottutissimo grande disco. Mi ero allontanato dagli Afterhours dopo il discutibile "I Milanesi ammazzano il sabato", dopo l'inutile e inspiegabile (per quanto mi riguarda) esperienza Sanremese e i duetti con Mina ma soprattutto dopo la sensazione crescente che i nostri amici si crogiolassero nell'idea di essere divenuti un gruppo per ragazze disperate che urlano in lacrime quelle belle frasi costruite con sapienza e per i finti intellettualoidi che amano le chitarre innocue dei cantautori e le canzoni piene di introspezione sulla vita e sull'amore. In una sola parola: noia. Anni fa Xabier Iriondo se ne andò per divergenze con Agnelli riguardo il percorso da seguire, lui proiettato verso la sperimentazione totale, l'altro orientato verso una diffusione maggiore del loro verbo. Due strade diverse che avevano entrambe motivazioni condivisibili ed hanno portato senza dubbio a risultati soddisfacenti. Gli Afterhours hanno indubbiamente conquistato una notorietà considerevole col passare degli anni beneficiandone oggi che possono permettersi l'autoproduzione di un album senza alcun vincolo discografico. Xabier nel frattempo ha sviluppato un'esperienza enorme nella creazione, manipolazione e applicazione di suoni non conformi alla normalità giocando con equilibrio sapiente con la musica sul filo dell'esasperazione. Le due anime si ritrovano insieme all'improvviso nell'estate del 2011 e unendo i risultati delle due esperienze ne viene fuori un album sorprendente, quello che forse non ci aspettavamo più. Il disco non piace e non piacerà mai alle ragazzine urlanti e ai mediocri ultramelodici e proprio per questo ha ridestato invece l'entusiasmo di quelli come me che conoscevano gli Afterhours ben prima del loro successo.

E' un album complicato, difficile, pesante e impegnativo che necessita di numerosi ascolti per trovare la chiave di lettura di ogni brano. La potenza del suono è impressionante e gli arrangiamenti talmente complessi e ridondanti che alcuni brani sembrano traboccare suoni senza riuscire contenerli. Ci sono pezzi volutamente privi di una melodia lineare, di un filo conduttore, come "Fosforo e blu", "Giù nei tuoi occhi", "Spreca una vita" ma che sprigionano una potenza entusiasmante e si affannano con stacchi improvvisi e saliscendi isterici e sferraglianti che, se non superiori, sono senz'altro degni dei vecchi tempi. Anche lì dove l'atmosfera si tranquillizza, in brani più lievi, più semplici al primo impatto, come "Costruire per distruggere", "Padania" e "Nostro anche se ci fa male" appare comunque evidente un ricerca di evoluzione rispetto alla forma canzone tradizionale. Sono brani in cui non c'è banalità, né traccia di "già sentito" o di autoreferenzialità ma che, nonostante questo, quando il pubblico avrà allenato l'orecchio, diventeranno grandi classici. Così come un grande classico sarà certamente "La tempesta è in arrivo" l'unico brano lineare dell'album piacevole, elettrico e convincente fino in fondo. Personalmente mi entusiasmano in modo particolare l'incipit dell'album, quella "Metamorfosi" fantastica con un testo strepitoso e un cantato sorprendente, in stile Diamanda Galas, che si appoggia su una melodia sfuggente e struggente fatta solo di archi (con un D'Erasmo in stato di grazia) fino all'esplosione rumoristica che si apre nel centro del brano e poi "Io so chi sono" con il sassofono schizofrenico di Enrico Gabrielli e un finale mozzafiato con addirittura un inedito coro di bambini demoniaci. Inutile dirvi il godimento che provo nel leggere i commenti di chi si sente smarrito, di chi si augurava un album più facile, più orecchiabile. La soddisfazione che mi riempie nel leggere la rabbia di quelli che dopo la quarta canzone vorrebbero buttare l'album nel cesso. In realtà è proprio questo che mi fa avere la certezza di essere di fronte a un grande disco, il disagio di quelli che dopo cinque minuti di ascolto non ce la fanno più è la prova che siamo di fronte ad un grande album.

La musica, come ogni forma d'arte, segue le regola della bellezza. Le cose che appaiono piacevoli sin da subito inevitabilmente non hanno spessore, non hanno sostanza. Non c'è arte in ciò che è facile. La bellezza, quella vera, non è per i pigri, per i poco coraggiosi. La bellezza si svela lentamente, all'inizio appare incomprensibile. Viene alla luce un po' per volta e poi all'improvviso ti inonda con la sua incontenibile enormità. In quel momento hai trovato la chiave di lettura. Finalmente gli Afterhours sono tornati a regalarci un bel disco, un lavoro di sostanza e di spessore. Un disco che parla di noi, del disagio che viviamo ogni giorno in questa terra meravigliosa/brutto paese che ci fa indignare e incazzare. Un disco che parla di cultura di voglia di esprimersi di urlare la propria rabbia senza condizionamenti. Roba per chi non ha paura di faticare, di scavare e di sudare per trovare un qualche significato alla propria fottuta esistenza.

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