Avevo finito da poco di leggere “I Vagabondi del Dharma” di Jack Kerouac, ormai potevo considerarmi un appassionato di uno dei più grandi padri della beat generation americana. Mi sentivo infondere nell’animo una sensazione di mitezza, nitida contemplazione esistenziale su cui stendere le mie preoccupazioni, le mie paranoie. Poi in quei giorni lessi un’intervista degli Agalloch, sapendo che era uscito il loro nuovo album ed ero curioso di vedere cosa avessero combinato dopo ben 4 anni di silenzio da “The Mantle”.
Il caso volle che il quartetto di Portland si trovasse a denunciare la politica di Bush e nel descrivere “le glorie dell’America” fecero il nome di Mark Twain e del mio tanto amato Kerouac. Già. Attraversare il deserto dell’Arizona ascoltando Tom Waits, scalare le dimenticate montagne californiane con uvetta e noccioline in tasca; e poi inoltrarsi nelle foreste del Nord Pacifico e meditare, e lasciarsi tutto alle spalle nel flusso di una vita che non sa ascoltare la preghiera della nostra anima tormantata; ed ascoltare il rumore dei cervi come quello che campeggia sulla copertina di “The Mantle”, e guardare l’orizzonte e il sole disperdersi nel rosso del crepuscolo, fumarsi una sigaretta nel nulla, perdersi nel silenzio, nella contemplazione della pioggia che cade lenta e sentirsi soli e dimenticati da Dio su quelle maledette montagne innevate. Si, queste sono cose che puoi fare solo in America.
Questo era lo stato d’animo in cui mi trovavo quando schiacciai il tasto play del lettore con dentro “Ashes Against The Grain” e quando le distorsioni di “Limbs” arrivarono, l’effetto fu disarmante. Gli Agalloch sono cambiati. Questo non è gothic-folk metal dagli accenti black come in “Pale Folklore”, non c’è l’ intimismo e la pacata delicatezza di “The Mantle”, e quelle atmosfere soffici e rassicuranti. “Ashes Against The Grain” NON è rassicurante. Le distorsioni qui soffocano, inebriano l’aria come in “Limbs", quando un arpeggio spezza la ruggine nel cielo e poi l’atmosfera si fa soffusa fino a un colpo repentino di batteria: ed ecco le chitarre distorte che fanno da padrone. Melodia che avvolge, melodia che ci stacca dal mondo, questa e la musica che amiamo, dannazione. Arrivai a pensare che questo fosse l’album gothic metal che avevo aspettato da tutta una vita. Ma questo NON è gothic metal.
Qui si gioca con il black soffuso degli Ulver, e poi con quel feeling che solo e soltanto i primi Katatonia erano capaci di creare, creando una forma in bilico tra il dark metal ambientale che solo loro riescono a gestire. In un oceano così vasto solo la melodia detta legge, qui non ci si preoccupa di nascondere (o mostrare) le proprie influenze, Qui si suona e basta. Qui c’è l’ emozione. Qui ci sono i Pink Floyd che affiorano e a volte persino gli Isis, in quel delicato affresco di suoni che ci fa rabbrividire sul divano con le cuffie nelle orecchie. Poi si sfiora il funeral, si toccano corde segrete dell’animo e un doom mestissimo sfocia all’orizzonte, ma quel che conta è l’apertura ariosa, la melodia che non ci fa disperare di fronte al senso ultimo dell’esistenza, ma ci fa commuovere. Siamo solo granelli di sabbia in un mare infinito, dicono gli Agalloch… Parole che possono turbarci e farci star male; ma questa è poesia, e non si può rimanere indifferenti. E poi la voce di Hughm si erge dal sospiro, si fa screaming sussurrato, un cantastorie notturno e dannato nella foresta della vita.
Io non posso far altro che invitarvi a seguirlo, anche se vi fa paura, così angoscioso, così inquieto, così nero. Perché il dolore ci fa soffrire, fatichiamo a trovarvi un senso, ma il dolore è anche poesia, e come tale sa come riscaldarci l’animo, il cuore e la vita.
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