Solitamente i debut album sono quelli che fanno il botto più fragoroso e il qui recensito "Pale Folklore" (1999) degli Agalloch (Portland, Oregon) non trasgredisce affatto la regola, seppur tradendo una sottile inesperienza del gruppo. Gli Agalloch con questo album riescono a miscelare due generi già abbondantemente spolpati, quali doom e folk, plasmando un'atmosfera invernale cruda e palpabile quanto il freddo pungente che congela ogni singola nota della loro musica.
Coloro che non conoscono il disco e che si insospettiscono nel leggere il famigerato "doooom" non pensino quindi di avere a che fare con un album pesantissimo, deprimente e soprattutto lento (come ogni buon album doom che si rispetti): "Pale Folklore" si impernia su ritmiche agili e dannatamente sfuggevoli, nonchè su atmosfere nebbiose ed indefinibili, senza mai sfociare in spaventose anticamere infernali ma anzi lasciando solamente una scia di languore autunnale e di malinconia densa come la resina.
Il contrasto tra chitarra acustica/clean e distorta è la prima vera arma vincente dell'album e ciò lo si può notare a partire dal meraviglioso trittico di "She Painted Fire Across the Skyline: 1/2/3" che apre maestosamente l'album: tra cambi di tempo impercettibili e mai sconvolgenti, le lacrime di chitarra in clean e il secco, esile muro di suono delle distorsioni si alternano e si incrociano come le strofe di un'amara poesia, dipingendo febbrilmente il corso delle stagioni. Come se non bastasse, anche il contrasto tra i gelidi e rochi sospiri di Haughm e gli acuti lirici di una cantante (di cui non conosco il nome) accentuano, anzi arricchiscono le sfumature sbiadite ed acquerellate dagli strumenti.
Sempre mantenendo la stessa formula, gli Agalloch destreggiano e manipolano abilmente il clima di ogni brano, ora giocando con una spiccata epicità, tracciando nell'aria assoli ed arpeggi che rievocano la sublimità d'immensi panorami (come nella punta di diamante dell'album "Hallways of Enchanted Ebony"), ora muovendosi in territori più consoni al vero doom (la grezza ed asciutta "Dead Winter Days") oppure cimentandosi in autentici sfoghi di puro ambient melancolico e gocciolante (l'onirica dolcezza delle tastiere in "The Misshapen Steed").
"As Embers Dress The Sky" è un po' la degna summa del genere agallochiano, con quello stacco centrale dove sboccia una chitarra acustica sognante e sconsolata, mentre "The Melancholy Spirit" affoga negli echi dei suoi invernali arpeggi, a tratti distanti ed arcani, ed incede con mestizia e tranquillità quasi rassegnate; Haughm sussurra amareggiato, ringhia flebilmente, ma non esplode mai in furiose grida, come se fosse rallentato e contenuto dalla dolce e limpida tristezza di una vita trascorsa all'insegna della contemplazione di uno scenario naturale che ora sta appassendo piano e silenziosamente.
In questo "Pallido Folklore" gli Agalloch hanno dimostrato, con la voce una poesia che vive della sua muta agonia, di avere ancora molto da dire; ciò lo faranno infatti con i successivi "The Mantle" e "Ashes Against the Grain", ampliando sonorità ai limiti del post-rock ed affinando magistralmente la loro componente più folk. Sebbene questo clamoroso debutto suoni ancora un po' sporco ed "immaturo", si merita ampiamente un 4,5 che arrotondo ben volentieri per eccesso.
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