Sperimentare e non adagiarsi mai sugli allori.
Questo è l'obbiettivo che si sono prefissati questi tre ragazzi dell'Oregon, riuniti sotto la sigla Agalloch. Don Anderson - chitarra, John Haughm - voce, chitarra, batteria e Jason William Walton - basso, dopo essere esorditi nel 1999 con lo stupefacente 'Pale Folklore', orientato maggiormente verso il doom/death, pubblica questo bellissimo album, scostandosi quasi del tutto dal metal canonico in favore di una fusione con il folk e un pizzico di ambient.
Raramente un cd di oltre 60 minuti (per un totale di 9 tracce di cui 4 strumentali) è riuscito a non annoiarmi, grazie alla carica emotiva di ogni singola canzone, che sembra parlare all'anima dell'ascoltatore. Le influenze principali sono gli Ulver, i Katatonia e bands non propriamente metal come Swans, Godspeed, Nick Cave, Tom Waits. I testi seguono un tema ricorrente che è quello della depressione, ma anche il lato della natura legato alla sua lotta contro l’umanità che sembra seguire la propria inclinazione a distruggerla.
L'intro "A Celebration for the Death of Man..." è interamente sorretto da un etereo arpeggio di chitarra acustica, a cui poi si accodano la chitarra elettrica, il basso, la batteria e le tastiere, fino a sfociare nel capolavoro "In the Shadow of Our Pale Companion", una suite di un quarto d'ora, dove per la prima volta sentiamo la glaciale voce di John, capace di passare da uno scream soffuso e mai troppo invadente alle clean voice o a un sussurro nasale. Il brano è molto articolato, si passa da parti più lente e melodiche ad altre più cadenzate e il testo è da applausi, soprattutto nel pezzo: "If this grand panorama before me is what you call God. . . Then God is not dead" che personalmente mi ha colpito molto.
"Odal" è un lento strumentale scandito dala batteria che alterna riff quasi black a parti acustiche. Nel finale un piano malinconico introduce "I am the Wooden Doors", brano più tirato che non rinuncia ai fraseggi chitarristici e ai pregevoli inserti acustici, da antologia quello nella parte centrale. "The Lodge" presenta un unico arpeggio acustico su una base di violoncello, che calma le acque prima dell'altro brano più tirato, "You Were but a Ghost in My Arms", con un testo che parla di un amore finito che tormenta l'amante lasciato e lo porta nella disperazione più assoluta.
"The Hawthorne Passage" è lo strumentale più lungo (oltre 11 minuti), dedicato al tema della grigia vita nelle città. Ciò che lo distingue dagli altri è l'inaspettato assolo blues che rende il brano ancora più malinconico e sofferente. "...And the Great Cold Death of the Earth" resta sulla stessa scia degli altri brani, con la differenza che adesso sono le chitarre elettriche a fare da sottofondo a quelle acustiche, che si dilungano in fantastici assoli, e nel finale c'è la ripresa del tema dell'intro.
Chiude questo grandissimo album "A Desolation Song", in cui la tristezza è quasi palpabile, dove gli scream sono messi da parte per il solo sussurro su una base di fisarmonica e chitarre acustiche e uno stupendo assolo di mandolino (!).
Insomma un album più da vivere che da ascoltare passivamente, che proietta gli Agalloch tra le migliori metal band oggi in circolazione (aspettando il nuovo album che uscirà nei primi di Agosto).
Carico i commenti... con calma