Gli Agent Orange sono una band hardcore che incise il proprio capolavoro nell'81, anno-vertice dell'intero movimento. Venivano da Fullerton, Orange County, uno degli epicentri punk della provincia californiana. Tra i membri fondatori vantano un certo Steve Soto, che poi andò a fondare gli Adolescents, un nome ora scolpito nella storia. Perchè, allora, per esempio, sul libro-Bibbia "American Hardcore: A Tribal History", nonostante i crismi enciclopedici di quest'ultimo, sono dedicate loro pochissime righe? Ce lo dice lo stesso Steven Blush: "non lavorarono mai sodo, e vennero presto dimenticati".
Erano anni di ortodossia ideologica, d'incessante stacanovismo; anni che gli Agent Orange passarono invece a surfare o a fare skate nella ridente provincia californiana. Hanno inciso, in quasi trent'anni d'attività, tre soli dischi (fate un confronto con la media di pubblicazione dei Black Flag, per esempio). Non numeravano a mano i propri vinili nè disegnavano le locandine dei concerti. Non girarono mai gli States a bordo di un vecchio furgone ma, anzi, uscirono ben poche volte dall'amata contea di Orange. Non finirono mai nell'orbita delle nascenti indie-labels ma, anzi, incisero il loro primo disco nello studio del futuro produttore di Madonna. Dell'eroismo - una boutade: neo-romantico? - e del sudore dei primi kids dell'hardcore americano, gli Agent Orange di Fullerton - al secolo Mike Palm, Scott Miller e James Lavesque - non sapevano che farsene.
"Living in Darkness" è, dunque, la pecora nera del 1981. "Bloodstains", loro primo singolo, con il suo incedere anthemico, è il pezzo più diplomaticamente hardcore del lotto, uno degli inni californiani dell'anno. Per il resto, si tratta di un disco che rimescola le carte a tal punto da far fatica ad inserirli nel filone in cui in tre si muovevano, a partire dalle influenze. Gli Agent Orange non guardavano ai Ramones, ma a Dick Dale, del quale rifecero il classico "Miserlou". La classe con la quale coniugarono certe sonorità sixties all'umore nerissimo dell'era reaganiana è la loro grandezza. Questa tensione pre-apocalittica ed un certo minimalismo sonoro sono gli aspetti che condividevano con i punks a loro contemporanei, che vennero però - come già detto - totalmente spiazzati dai loro riff di chiara matrice hard'n'heavy, dalle sonorità surf/twangy della chitarra di Mike Palm, dalle canzoni dalla durata media che sfiorava i tre minuti. L'autorevole Trouser Press, tra le più importanti riviste a trattare del "nuovo rock" settantasettino, li descrisse come un ibrido tra Sex Pistols, Ventures e Blue Öyster Cult, definizione più efficace d'ogni mia acrobazia recensorea.
In evidente antitesi con l'etica del fare dell'hardcore americano (anti-nichilista sin dai suoi albori), il corrucciato pessimismo e la rassegnata disperazione di inni quali "Everything Turns Grey", "A Cry for Help in a World Gone Mad" (l'apice del disco), "The Last Goodbye", tra i migliori mai scritti dalla gioventù reaganiana, andava ben oltre il no future d'Albione e fu l'ultimo elemento che concorse a cancellarli dalla storia del rock che, come sappiamo/sapete, sa essere molto crudele. Mettete quindi "Living in Darkness" accanto a "Damaged", "Fresh Fruit for Rotting Vegetables", "Rock for Light", "Adolescents", "Group Sex" e "Back From Samoa", prima che venga il fantasma di Lester Bangs a rendere insonni le vostre notti e, soprattutto, prima che una perla di questo calibro venga definitivamente dimenticata.
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