Da marchigiano è per me motivo di grande orgoglio (oltreché di particolare emozione) accingermi a recensire un album suggestivo, affascinante e storicamente prestigioso, prodotto da cinque validissimi musicisti originari dell'anconetano e fautori di una peculiare variante di Jazz-Fusion dagli accenti mediterranei: gli Agorà, ovvero i detentori dell'invidiabile record di essere stati la prima band italiana in assoluto ad esordire (in grande stile) con un album registrato dal vivo, l'eccellente "Live In Montreux", pregevole cronaca di un leggendario concerto tenuto il 7 luglio del 1975 in occasione del rinomato Festival Internazionale del Jazz. Le interessanti soluzioni strumentali adottate e l'ottima, direi quasi perfetta qualità della registrazione (a dispetto dell'epoca) impongono un'approfondita rilettura dell'opera, tenendo adeguatamente conto della coeva scena "alternativa" italiana e degli sviluppi che in quegli anni interessavano il panorama jazzistico internazionale.

"Agorà" è termine greco (oggi è spesso utilizzato anche nell'italiano corrente in quanto prestito integrato) che identificava la piazza centrale delle antiche "poleis" dell'Ellade, fulcro della vita politica e commerciale della comunità; era soprattutto il luogo deputato ad ospitare l'assemblea generale dei cittadini, contesto ideale in cui, nell'ambito dei regimi democratici, il singolo poteva avere libertà d'espressione e proporre suggerimenti propri al resto della cittadinanza. "Agorà" quindi significa anche "luogo di condivisione e libertà", e questo spirito aperto ed egualitario che fu alla base dell'originario istituto poleico sembra rivivere nella musica dei Nostri, nel senso di creazione d'una forma sonora fluida, ben amalgamata e coerente, "unicum" in apparenza inscindibile eppure mirabile risultato di più contributi individuali portati dai solisti. Ascoltando le composizioni dell'album, a prescindere dalla varietà dei registri umorali impiegati, si avverte la sensazione tutta particolare di un flusso che scorra costante, uniforme, omogeneo, senza virtuosismi mal calibrati o eccessive asperità; l'innegabile (e ragionata) pianificazione preliminare dei pezzi e della loro composita architettura non snatura l'intensità emozionale della musica, l'empatia sicura e consolidata fra i musicisti. Prevalenti a livello timbrico (e responsabili degli spunti solistici più significativi) sono il sax di Ovidio Urbani, carismatico ma non tirannico leader, e la graffiante ma agile chitarra di Renato Gasparini; linee soliste si muovono sull'elegante tappeto del Fender Rhodes di Renato Bacciocchi, vicino per impostazione a un Franco D'Andrea ma lievemente più morbido e levigato, nel timbro, rispetto al pianista del Perigeo; sezione ritmica affidata al basso di Paolo Colafrancesco, capace di ricordare (nella filosofia ma non nella tecnica esecutiva) certe cadenze da "pulsazione continua" alla Hugh Hopper, e alla batteria di Mauro Mancarono

I cinque si erano riuniti nel 1974 sulle ceneri di una precedente formazione locale chiamata "Oz Master Magnus Ltd", esordendo lo stesso anno (e che esordio!) al Festival del Proletariato Giovanile di Parco Lambro a Milano, la migliore vetrina d'esposizione per le novità del "pop" di casa nostra; performance scialba e poco coinvolgente, raccontano le cronache, forse dovuta all'inesperienza di un gruppo che però dimostra di saper maturare in fretta, calcando in rapida successione i palcoscenici di importanti manifestazioni come il Festival di Villa Pamphili. Nel giro di pochi mesi la qualità tecnica della proposta e l'affiatamento ormai raggiunto fra i musicisti convincono gli organizzatori del Festival di Montreux, che ne avevano ascoltato un demo, a scritturare gli Agorà per l'edizione 1975. Già sotto contratto con la Atlantic e guidati dalla luminosa produzione di Claudio Fabi, i Nostri si esibiscono al fianco di mostri sacri del calibro di Van Morrison e di John McLaughlin con la Mahavishnu Orchestra (da segnalare, per onor di cronaca, che la location prescelta per l'esibizione non era il celebre casino della cittadina svizzera andato distrutto nello storico rogo di cui riferiscono i Deep Purple in "Smoke On The Water", e in cui si sarebbe tornati dal 1976 in avanti, ma una sede alternativa). In un certo senso, e pur con le dovute proporzioni, quel concerto ebbe per la band l'importanza che Woodstock ebbe per i Santana, perché fu l'ideale trampolino di lancio per una carriera breve ma molto significativa, e soprattutto perché la pubblicazione del relativo album consentì la formazione di un gruppo di fedelissimi appassionati (per lo più, seguaci dell'ancor giovane Jazz-Rock e di una Fusion ancora in stadio embrionale). Di Fusion ante-litteram possiamo parlare senza ripensamenti, considerando la caratura dei cinque, qui immortalati nell'arco di un intero concerto (non sono stati effettuati tagli di alcun genere, l'esibizione è stata riproposta integralmente).

In un soffuso crescendo di suoni e profondi vocalizzi corali che irrompono qua e là (solo il sassofonista non canta, per ovvi motivi) prende lentamente forma l'ossatura dell'iniziale "Penetrazione", scandita dall'ostinato basso di Colafrancesco e dal dialogo fra batteria e piano elettrico, mentre Gasparini fa risuonare una ad una, con nitidezza e lirismo, le note della sua chitarra; nella seconda parte l'assolo si fa più energico, accelerato, introducendo il sax di Urbani, emulo di Coltrane ma esecutore di fraseggi ispirati e originali, prima della veloce cadenza che chiude il pezzo e porta all'incipit della prima parte di "Serra S, Quirico": composizione più sostenuta, questa, con assolo iniziale di Gasparini che si prolunga fino a una sezione centrale meditata e "silenziosa", condotta dalle note del basso prima e poi dall'esposizione di un nuovo tema al piano, spunto per ulteriori divagazioni solistiche capaci di movimentare la scansione narrativa del brano fino alla sua conclusione. Sulle stesse atmosfere si muove "Serra S. Quirico Parte Seconda", solo con una maggiore presenza del Fender Rhodes di Bacciocchi, autore di virtuosi e complicati passaggi in velocità incastonati fra sax e chitarra. "Acqua Celeste" costituisce l'ulteriore approfondimento delle tematiche già introdotte nella prima metà dell'album, e brilla per la consueta personalità strumentale e lo spirito di gruppo palesato dai Nostri, abili a variare registro e a proporre sviluppi insoliti e sempre nuovi; si chiude con un brano, "L'Orto di Ovidio", curiosamente dedicato da Urbani alle terre di casa propria (chi conosce certi paesaggi dell'entroterra marchigiano non avrà fatica ad immaginare quei piccoli appezzamenti di terra fra un casale e l'altro, retaggio dell'antica mezzadria): ed è proprio il sax ad introdurre da par suo quest'ultima cavalcata strumentale, all'altezza delle altre e ideale continuazione di un disegno concettuale capace di abbracciare l'intero album.

Purtuttavia, le reazioni di certa stampa specializzata furono tutt'altro che positive: si pose l'accento sulla presunta derivatività di una proposta troppo debitrice delle intuizioni di Perigeo, Soft Machine o Weather Report, e al gruppo fu rivolta l'accusa di "scolastica freddezza", nell'ottica di un quadro sonoro macchinoso e poco brillante. Soprattutto furono osteggiati dall'ala estrema della Controcultura che polemicamente (ma poco intelligentemente) li accostava agli Area: del resto è cosa risaputa che quando, in sede di analisi critica, si mescolano politica e musica, si ottengono risultati fuorvianti, fortunatamente oggi in gran parte ribaltati e non più meritevoli di considerazione. Raffinati, colti, intimisti, tendenzialmente romantici e meditativi, i Nostri hanno invece avuto il merito di produrre due album (questo e il successivo "Agorà 2", quello con "Cavalcata Solare" e "Punto Rosso") che hanno saputo resistere al tempo, conservando immutato il proprio fascino e testimoniando degnamente l'eleganza di musicisti poi destinati (soprattutto Urbani) a una certa fortuna sulla scena jazzistica italiana contemporanea.

Si sa, sono di parte (essendo io loro conterraneo), ma cinque stelle a questo album non le leva nessuno.

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